lunedì 26 dicembre 2011

La mattina di Natale.

La mattina di Natale sta in una palla di vetro. Con la neve, per chi ce l'ha. La prendi, la muovi, la osservi da tutte le angolazioni, ma la mattina di Natale resta sempre lì, imprigionata in quell'involucro trasparente, al riparo dal mondo, col quale non spartisce niente, tranne un giorno nel calendario.

Per molti è una mattina di regali. Per i più piccoli, soprattutto. Perché a mezzanotte sono già a letto, stanchi perché lo dicono gli adulti, e devono aspettare il giorno dopo per scartare quei pacchi colorati, che vengono consegnati loro dai parenti, sebbene però ancora a nome di Babbo Natale.

Sotto un albero verde, acceso di luci anche in pieno giorno, quando il sole di fuori sarebbe sufficiente a rischiarare tutta la stanza. E allora io pensavo che quelle lucette intermittenti servissero proprio ad aprire i regali, che fossero puntate esattamente sugli apparentemente inestricabili fiocchi di nastri, ultimo ostacolo prima dell'agognata sorpresa. Quando ero ancora un essere umano in miniatura e, dormendo a casa della nonna, correvo in pigiama, inciampando, verso la stanza con il grande albero, pensavo che Babbo Natale fosse il migliore elettricista e scenografo del pianeta. Oltre che, naturalmente, capo della più efficiente ditta di spedizioni dell'intera galassia.

Adesso è diverso. Per me, la mattina di Natale è una mattina di voci e suoni. Mi sveglio sempre dopo tutti gli altri, contrariamente alle mie abitudini mattiniere. Apro gli occhi perché sento parlare e ridere i miei genitori e mio fratello, di là. La mia mente si desta dal sonno e si instrada in quei dialoghi e in quelle risa, viene investita da quel tornado di parole e sorrisi e si lascia trasportare da lui, che non la sballottola senza ragione, bensì la culla dolcemente. E' una morbida melodia che mi avvolge, che mi fa subito capire di essermi svegliato la mattina di Natale.

Ho già scartato i regali, la sera prima. E l'albero a casa della nonna non c'è più.
Eppure, mi alzo in pigiama e corro, inciampando, verso di lui. Che ancora oggi riesco a vedere, laggiù, in fondo al corridoio, gigante buono di aghi che non pungono, con le radici che affondano in tantissimi regali colorati. E con le luci intermittenti, che mi aiutano a scartarli. Mi guardo le mani e sono minuscole, il fiocco rosso è ancora lì e tutti mi osservano impazienti per vedere se, una volta aperto, mi piacerà il regalo. Come se sapessero cosa mi ha portato Babbo Natale.

Anche quest'anno ho visto tutto ciò, la mattina di Natale. Tenendo in mano la palla di vetro che la contiene. E che sta appesa all'albero della mia vita.

mercoledì 14 dicembre 2011

Autumn in december.

Dicembre, per tutti, è già pieno inverno. In realtà, stando agli impronunciabili solstizi,dicembre cade quasi tutto in autunno e solo da giorno 21 entra, timidamente, nell'inverno. Nel primo inverno, a dirla tutta. Quello teoricamente ancora non troppo freddo, piovoso, innevato. Incazzato, per dirla con una parola sola. Oppure, è un autunno che si attarda, con foglie che cadono sempre più lente e annoiate, appesantite dalle piogge e dalla malinconia. In effetti, però, è difficile immaginare Babbo Natale che sfreccia con la sua slitta su una strada ricoperta di fogliame, armato di ramazza e con un cartoccio di caldarroste in mano. Perciò, ci accontentiamo del primo inverno, così, tanto per non sottovalutare un mese così importante. D'altronde, che cada la neve o cadano le foglie, poco importa. L'importante è che cada qualcosa.

Proprio quel Babbo Natale tanto caro ai bambini, come recita l'incipit di ogni letterina spedita per magia dal tavolo di casa propria a quel nonno di cui ci si ricorda solo una volta l'anno. E anche se, di questi tempi, l'aggettivo in questione è da intendere più in senso economico che affettivo, alla fine ogni bambino, in tutte le epoche, almeno una volta nella propria vita, ha fatto qualche richiesta per iscritto al simpatico vecchietto barbuto, alla faccia degli errori di grammatica e della calligrafia traballante ma felice.

Quando arriva dicembre, è già Natale. Ogni giorno è il 25, il che sembra andare contro il principio per cui, secondo mia nonna, puoi sbagliarti sui compleanni di tutti, ma su quello di Gesù non ci si può sbagliare: è pure segnato in rosso sul calendario. In realtà, è l'atmosfera che si respira a dare questa impressione, perché il mondo sembra girare a velocità rallentata.

La gente cammina per strada a passo lento e il corpo impiega un sacco di tempo a effettuare il minimo movimento, quasi come accade nelle riprese a rallenty in un film. Anche i suoni subiscono una metamorfosi simile, come un 33 giri messo alla velocità di un 45 giri. Sono il calore e l'intensità delle luci per strada ad appannare la vista di ciascuno, a filtrare lo sguardo attraverso una coltre trasparente di nuvole, a rubare il tempo al tempo per trasformarlo nell'istante di un bacio, a separare il vero dall'immaginazione, mettendo da parte il primo per la seconda, lasciata libera di esplodere nella sua bellezza primigenia.

Come quella di tutti i bambini che, ancora oggi, scrivono a Babbo Natale, utilizzando un foglio di carta sul quale ogni sbavatura d'inchiostro è una virgola di sorriso sul viso di ognuno di loro. E su quello di ognuno di noi che ancora è in grado di accorgersene.

lunedì 5 dicembre 2011

Il gatto dei miei stivali (parte II).

Dunque, dicevo che i padroni del felino di feltro sono una coppia, due ragazzi, che per un po’, agli inizi, non si vedevano spesso. Anzi, a dirla tutta, ogni tanto sparivano per alcuni giorni, per poi ricomparire magicamente la settimana successiva, assieme al gatto, naturalmente. Forse era proprio questa saltuarietà ad avermelo reso simpatico, le prime volte, presenza animale in un mondo di cemento, troppo freddo d’inverno e afoso d’estate, nel quale ogni movimento è accolto con gioia, figurarsi quello di un essere vivente, che non parla soprattutto, merce rara di questi tempi.

A poco a poco, però, la coppia è tornata ad abitare la casa sempre più stabilmente, esponendosi con costanza ai miei avvistamenti da paparazzo di quartiere e costringendomi ad abbandonare definitivamente l’idea di avere involontariamente beccato gli alter ego di Diabolik ed Eva Kant. Il Signor G, dunque, di sicuro più facilmente individuabile rispetto all’omonimo Punto, ha avuto tutto il tempo di costruirsi il piedistallo dal quale mi osserva ottuso e di colonizzarlo con la sua mole invadente, diventando, in definitiva, il mio vicino di casa a tutti gli effetti. E il mio nemico, in una guerra psicologica dagli esiti forse scontati.

E dire che una volta credetti pure di essermelo tolto di torno. Una sera d’estate, bella solo nelle canzonette ma, nei fatti, solitamente accostata dagli studenti a interminabili giornate di studio sudato, rincasavo baldanzoso e allegro, conscio di non aver buttato al vento, pressoché inesistente (era giugno, che assomigliava all’agosto nel Kalahari), il mio programma giornaliero di ripetizione.

Alzando la serranda della cucina, posta a fianco di quella della mia stanza e perciò dalla vista sostanzialmente identica, mi resi conto che Diabolik ed Eva non erano ancora tornati. Tutto buio e niente gatto. Solo una luce, che si muoveva lenta, sospesa nel vuoto di una delle stanze di quell’appartamento: un microonde, collocato sul frigo, con qualcosa dentro. Il gatto, pensai, osservando quella scena oggettivamente inquietante. Finalmente se ne sono liberati o forse lui, nella sua infinita stupidità, si è cacciato là dentro chissà come e adesso finirà cotto a puntino, senza che Eva lo possa salvare. Mentre pensavo speranzoso a tutto ciò, ecco che il micio fa capolino alla fatidica finestra, un po’ rintontito per le ovvie botte al muro prese in una casa buia, ma adesso ben saldo sulla sua plancia di comando.

Quella volta mi sorrise, ne sono sicuro. Anzi, sogghignò, godendo della mia delusione e leccandosi i baffi per l’ennesima vittoria ottenuta ai miei danni. O, forse, per il pollo che già da un po’ girava lento nel microonde.

Il gatto dei miei stivali (parte I).

Quel maledetto gatto mi sta guardando. Come ogni mattina. Appollaiato sul davanzale della finestra di fronte, bianco candido non certo per meriti propri, inutile soprammobile deambulante, fissa i suoi occhi gialli nei miei. Mi osserva sornione, credendosi onnipotente, padrone incontrastato di casa sua, un re che regna su un appartamento vuoto, sovrano del nulla. Sicuramente tutti si prostrano ai suoi piedi, lo accarezzano magari, vantando i padroni per la cura di un pelo che sarebbe irto e sporco come il suo animo, se non fosse per quelle mani caritatevoli che ogni tot a settimana lo ripuliscono di tutto punto, come si fa con l’argenteria. E quando qualche ospite gli calpesta la coda, gli chiede subito scusa, come se lui capisse.

Io odio i gatti, questo si era capito. Nei loro confronti, applico quel vademecum della quotidianità che è dato dai luoghi comuni, e perciò sostengo che puzzano, e pure tanto. E odio ancor di più lui, quel gatto vicino di casa, che farei volentieri a meno di guardare, se non fosse che la finestra della mia stanza è posta inesorabilmente di fronte alla sua. Devo per forza alzare la serranda, appena mi alzo, quantomeno per far entrare un po’ di luce da fuori. Non che i risultati siano eccelsi, dal momento che io abito al piano terra (come il gatto) e la mia razione di sole arriva all’incirca verso mezzogiorno, barlume di allegro colore che fa sorridere le mura della mia camera, gialline per l’avarizia della padrona di casa che, per ridipingerle, non sembra si sia rivolta propriamente a un pittore professionista. E dunque, ecco il destino beffardo: io devo spalancare la finestra della mia stanza e non posso sottrarmi alla vista del bianco felino, il quale, facendolo certamente apposta, ogni santo dì si piazza su quel davanzale. E mi fissa. E non si muove, quel grasso pallone peloso latteo.

Inizialmente mi piaceva pure, la verità. Nelle prime settimane di permanenza nella nuova città, cercavo di prendere confidenza con la realtà con la quale avrei fatto i conti per un po’. E dunque, naturalmente, ho iniziato tracciando i confini sicuri del mio palazzo e del mio isolato. Questa operazione non poteva prescindere dall’osservazione dei miei vicini di casa. Per me, i vicini di casa non sono coloro che condividono il pianerottolo, ma tutti quelli che circondano l’edificio in cui abito, come una sorta di esercito che cinge d’assedio la cittadella fortificata del mio condominio. In effetti, ora che ci penso, questa metafora guerresca si adatta bene alle realtà condominiali.

Comunque sia, sfruttando ciò che la mia accogliente torretta d’avvistamento, arredata con mobili rigorosamente Ikea, mi permetteva di vedere, ho potuto soffermare la mia attenzione sul corrispondente piano terra del palazzo accanto. Sì, perché, come in tutte le grandi città che si rispettano, è difficile che una casa in affitto per studenti goda di una vista incantevole. E dunque, anche la mia, per non essere da meno, si affaccia su un palazzone di sei piani, dal quale è separata per mezzo di un piccolo viottolo, nel quale si affollano le macchine dei fortunati condomini che si sono assicurati il posto auto, con un’estrazione molto più attesa e ansiogena di quella della Lotteria Italia.

Per intenderci, solo dopo un anno ho appreso che il vicino di pianerottolo, molto più “vicino” della coppia col gattaccio del palazzo accanto, è un qualche militare in carriera, o forse un pilota d’aerei. Ecco, insomma, ancora non conosco chi calpesta la mia stessa parte di corridoio dell’androne, chi apre la propria porta di casa a pochi metri dalla mia, chi potrebbe bussare alla mia porta, un giorno, come nei film, per chiedermi un po’ di sale, per poi attaccarmi un bottone pazzesco sui rincari del riscaldamento. Che poi, se ci penso, il sale è la prima cosa che una persona acquista per riempire la dispensa di casa, assieme alla pasta, allo zucchero e al caffè. Anche il pilota di astronavi avrà fatto così, e perciò nessuna scusa per importunarmi. Meglio così.

Il mio primo bis è stato di polpette.

Erano di carne, al sugo. E io ero all’asilo. Anzi, alla mensa dell’asilo.

Quello stesso asilo nel quale, una volta, girai nudo dopo aver fatto la cacca, perché nei pressi del bagno non c’era la maestra a portata di mano per aiutarmi nelle operazioni successive alla fattura. Nessun imbarazzo provai nel percorrere in costume adamitico il corridoio sul quale si affacciavano le classi, rintracciando alfine la maestra e ottenendo quello che volevo. Solo quando poi quest’ultima riferì a mia nonna l’accaduto, mi sfiorò un minimo di vergogna, non tanto per il fatto in sé, quanto per il rimprovero che credevo mi sarebbe giunto, di lì a poco, per quell’increscioso episodio.

Che poi, se ci penso, non esistono regole di buon costume per i bambini. Tranne, forse, per quanto riguarda le parolacce. Anche se, in questi casi, c’entra, più che altro, la curiosità di ripetere una parola nuova, che l’adulto di turno proibisce di pronunciare, dopo che lui stesso se l’è lasciata sfuggire, colpevolmente, alla presenza del bambino, che è pronto a recepire quel suono con orecchie attente, anche se sembra stia pensando o facendo tutt’altro. Comunque sia, l’assenza di regole favorisce non poco la naturale inclinazione del bimbo a trovare soluzioni pratiche e veloci ai problemi di ogni giorno, con quella spensieratezza che, piano piano, ognuno di noi perde a favore dell’apprendimento e dell’applicazione delle regole stesse.

In ogni caso, tornando a me, mia nonna risolse tutto con un sorriso e con una delle sue battute - che adesso non ricordo, perché ai tempi non la capii - facenti parte di quel repertorio di semplicità e tradizione che le invidio fortemente. La stessa semplicità con la quale, prima di dormire, mi raccontava quelle che io pensavo fossero storie inventate e che, invece, erano tutti episodi di vita vissuta.

La stessa semplicità con cui, ancora oggi, mi sento di poter affermare, emozionandomi, che polpette come quelle dell’asilo non ne ho più mangiate e che quello fu il più bel bis culinario della mia vita.

Caffè.

Mi sveglio, la mattina.

Yogurt al caffè, caffè nella tazza di latte e biscotti, caffè in tazzina per consumare quello rimasto nella caffettiera, caffè al bar sotto casa aspettando il bus, caffè al bar dell’università appena arrivato, caffè durante la pausa della lezione, caffè dopo pranzo.

Di norma, io sono un tipo tranquillo.

mercoledì 16 novembre 2011

La nebbia.

Vedo la nebbia che scende morbida e vaporosa intorno a noi. Sorrido, l’aspettavo.

Aspettavo qualcosa che ti nascondesse al mondo, anche al sole. Qualcosa più grande delle nuvole, che non bastano mai a coprire il suono silenzioso dei tuoi sorrisi. Archetti di legno impazziti che si incendiano sfregando le corde di violini che fremono, come saette nel cuore della notte, lampi di fuoco che ci difendono dai lupi, uno accanto all’altro formano gabbie spinate dalle quali non vorremmo uscire mai. E nelle quali siamo entrati apposta.

In questo modo io ti rubo al tutto. O almeno è così che lo chiamano gli altri, che non vedono quello che vedo io mentre ti abbraccio, in quella nebbia che ormai ci avvolge, sagome mute di sana follia, unghie che cercano la carne per immergersi al suo interno, per scivolare sul sangue, che scorre vorticoso nelle nostre vene, simbolo caldo di vita.

E così finiamo per ballare per strada, sulle note di una musica che arriva chissà da dove. Stretti nel mezzo della folla, che passa e non ci vede, forse per invidia. E intanto i nostri cuori, battendo all’unisono con la musica, sembrano dialogare fra di loro, usando un vocabolario sconosciuto ai più, anche a noi, che sorridiamo ascoltandoli, come si fa coi bambini che ancora non sanno parlare e comunque ci provano lo stesso, emettendo suoni che sono versi del presente e parole del domani.

Ringrazio la nebbia per questo regalo. Adesso posso portarti lontano, non so dove. Mi basta sapere di non avere una meta, ma di immaginarla solamente. All’inizio, un posto è uguale all’altro. Solo uno, però, alla fine, sarà quello giusto. Lo stiamo creando piano piano, senza accorgercene, con parole e gesti, come chi unisce pollici e indici delle mani per formare una cornice, puntandola dove non c’è nulla e vedendo al suo interno, all’improvviso, un castello.

Nel frastuono dei giorni, noi ci parliamo a sussurri. O con semplici sguardi, che accecano chi prova a guardarci per spiare il segreto della felicità. Sforzo inutile, perché i nostri corpi sono verità a se stanti, troppo luminose per essere viste con occhi normali, troppo pulite per chi possiede anime sporche, troppo grandi per essere capite dalla gente.

Quella gente che ancora non crede alla possibilità di vivere in un sogno a forma di veranda sul mare. È lì che ci lascerà la nebbia, dopo averci trasportato su ali di cotone, con le nostre dita che ci sono passate attraverso per intrecciarsi tra loro e formare le stelle.

mercoledì 9 novembre 2011

Pù, passa Paperino.

Riflettevo sul fatto che l'ultima scena dello spettacolo (dei pupi) del Governo Berlusconi, quella in cui al vertice di Palazzo Grazioli, tenutosi nella notte precedente al voto fatidico dei 308, ha fatto capolino una Smart col peluche di Paperino sul cruscotto, ecco, quella scena, secondo me, rispecchia alla perfezione la situazione politico-sociale italiana. Pù, passa Paperino, appunto.

Appare inevitabile e quasi naturale, cioè, concludere la pantomima di questo Governo bislacco, caotico e confuso, ridicolizzato dal mondo, depresso e deprimente al tempo stesso, con una filastrocca, che ha ad oggetto una conta, appunto, quella che Berlusconi ha fatto anche ieri, alla Camera, per rendersi conto (scusate la volontaria ripetizione) di non avere più i numeri per governare, o per tirare a campare, che dir si voglia.

Un uomo, Berlusconi, che ha esordito nella propria carriera politica facendo sorridere con le sue barzellette e col sorriso sicuro del self-made-man e ha concluso tale carriera facendo ridere e basta, togliendo così a quest'ultimo verbo il prefisso "sor" degli inizi, tre lettere che richiamano alla mente la Sora Cesira, ultima tra i tanti che adesso se la ridono per davvero.

Un personaggio comico, che a un certo punto può anche impietosire, che se la prende con la sfortuna ma non con la propria pigrizia, che gira nudo per la strada e poi, quando fa la doccia, mette un asciugamano intorno alla vita per il pudore che non può avere: un Paperino, appunto. Con tanto di divisa da marinaio, indumento che ricorda gli esordi del Premier sulle navi da crociera, guardacaso, nel ruolo di chi deve intrattenere la gente facendola ridere anche quando non ne ha voglia.

Una commedia disneyana, infine, quella del Governo Berlusconi. Un cartone animato, in realtà. Di quelli che, però, non guarda più nessuno: troppo ridicolo per gli adolescenti e troppo brutto per i bambini. Di adulti, manco a parlarne. Tranne per quelle volte in cui, a questo cartone, si sono intervallati film a luci rosse, stridenti, con tutta evidenza, con la cornice in cui sono stati forzosamente inseriti, tant'è che molti italiani, più per ignoranza che per ritegno, si sono coperti gli occhi con le mani. Ma, nonostante questo, sono andati comunque a votare.

Tutto questo, tuttavia, ha avuto una fine, come ogni cartone animato che si rispetti. Non tutti vissero felici e contenti, anzi, in realtà, praticamente nessuno. Nemmeno le opposizioni, che, in questa situazione, si sono dimostrate più cervellotiche di Archimede Pitagorico, più incomprensibili di Eta-Beta e più litigiose della Banda Bassotti, non essendo state in grado, a tutt'oggi, di sfruttare questa incredibile fortuna alla Gastone di cui sono, forse immeritatamente, destinatarie.

In tutto questo, non me ne vogliano i personaggi della Disney, e in special modo Paperino, che ho sempre preferito a tutti gli altri, da quando ne leggevo le "imprese" sul Topolino, e che, anche adesso, come si può notare, non dimentico, o sono costretto a non dimenticare.

E' passato, quindi, anche questo Paperino. Nella notte di Palazzo Grazioli, prima del giorno dei 308, nuovo numero da smorfiare, se solo si potesse giocare. Ultimo atto di una tragicommedia politica di cui tutti gli italiani sono stati, in fondo, attori principali. A stipendio dell'Europa, come Paperino lo è di Zio Paperone.

Per tutti, dunque, è passato Paperino.

Solo dopo, però, che ognuno di noi abbia giustamente sputato.

"Sic transit gloria mundi". "Sic transit Paperino".

giovedì 3 novembre 2011

Sbàttiti.

C'è una finestra che sbatte. Erroneamente si dice che sia la finestra a sbattere, ma in realtà sono le persiane, palpebre legnose di un occhio che si apre e si chiude a mio piacimento, solitamente per mezzo di un chiavistello, che cigola e geme di godimento perché, nel piccolo della stanza, è dal suo scorrere ferroso che dipende l'alternarsi del giorno e della notte in quei pochi metri quadri.

Apro le persiane quando la mattina decido di affacciarmi sul mondo e cospargermi di luce; le chiudo quando ho bisogno del buio avvolgente della notte per addormentarmi, placando i sussulti del corpo che trasuda ancora raggi solari e si illude di riceverne altrettanti dalla luna.

Questa volta, però, è il vento che fa sbattere le persiane. Io le guardo e le lascio fare. Esse sbattono a ritmo coi battiti del mio cuore, fanno rimbombare intorno a me ciò che mi esplode dentro, e che farebbe assordare chiunque se non fosse per quella scatola di pudore che è il torace, naturale frontiera insonorizzata delle paure e delle gioie, cassa armonica di uno strumento stridulo e stonato, che assomiglia a un tamburo senza rullante: il cuore, appunto.

Stranamente c'è un vento regolare, preciso, che non spira a folate ma a soffi, aria sputata dal cielo subito dopo essere stata inspirata avidamente per sottrarla alle nuvole. E questo vento fa aprire e chiudere rumorosamente l'occhio vitreo della mia stanza, d'accordo col mio animo, in virtù di un patto non scritto che mi vincola a lui e mi lega al letto, in attesa di non so che cosa di preciso.

E ad ogni fragoroso colpo delle persiane risponde l'eco di quel muscolo che, guarda caso, è posto in mezzo ai polmoni, tant'è che si dice tolga il respiro, quando pulsa a causa del sentimento, coinvolgendo il cervello in un ballo vorticoso in cui, in fin dei conti, ognuno conduce l'altro a sua insaputa.

Sbatte la persiana, batte il mio cuore all'unisono e al mio cervello arriva un impulso, un ricordo, un momento, sottratto alla memoria del tempo da quel soffio di vento e condotto, attraverso la finestra aperta, nell'orchestra del mio essere, nota mancante per raggiungere l'armonia perfetta.

Perciò è questo rintocco di vita che mi porta a pensarti, ancora, di nuovo, meravigliosa ripetizione di una vita parallela, che tutti abbiamo sognato, almeno una volta. C'è chi sogna di compiere chissà quale impresa, chi di risolvere un problema o, quantomeno, di trovare il modo per poterlo affrontare. Io sogno di vederti, uscendo dalla stanza, dopo aver ascoltato a lungo quella finestra che sbatte.

E' un ricordo che si trasforma in sogno per diventare, un giorno, realtà. Tu lo sai. Io lo so. E aspetto te, ogni istante del mio tempo, col solo pensiero di riabbracciarti mentre mi sorridi, offrendomi spontaneamente un profumo vitale che emana dal tuo corpo, parlandomi con gli occhi, usando silenziose parole di ciglia che non riuscirò mai a scrivere su un foglio di carta.

E poi, insieme, andremo a chiudere quella finestra.

sabato 22 ottobre 2011

Il teorema della mosca.

Ho capito che cresciamo tutti, prima o poi. Cambiano i punti di riferimento, se non altro perché molte cose ci sembrano più piccole di come ce le ricordavamo. E noi più alti. Cambiamo in viso, tranne che in rari casi di immutati visi d'angelo, e nell'animo, anche qui tranne alcune eccezioni.

E qui arrivo io. Già il fatto di sorprendermi della natura che ci allunga e ci allarga ogni giorno di più, che ci colora in modo diverso a seconda degli anni, che ingrandisce il nostro contenitore della memoria che abbiamo in testa, così da poter incamerare sempre più ricordi, ecco, solo questo è sufficiente a fungere da indice della mia insana voglia di nascere adulto e morire bambino.

Sarà anche questo, eppure a volte credo di riuscire a toccare il tempo. Gli ho dato una forma, quantomeno un aspetto, spesso anche una voce, così sono più tranquillo. E' difficile, per chi come me è costantemente alla ricerca di una soluzione, sentirsi impotente di fronte alla sabbia che scorre in una clessidra, ai calendari che girano i propri fogli sempre più velocemente, alle stagioni che si succedono a ritmi ogni anno più vertiginosi. E non riuscire a fare nulla, limitandosi solo a guardare.

Dunque, mi convinco di vedere il tempo. E non penso che sia solo un'illusione della mia volontà. Ho fatto un semplice ragionamento: ogni cosa, nel mondo, quanto più è frequente e intensa tanto più conferma la propria esistenza. Prendiamo una mosca. Probabilmente nessuno si accorgerà di una mosca che entra in casa dalla finestra ed esce subito dopo dal balcone. Viceversa, se una mosca si stabilisce in una stanza e si palesa col suo imprendibile ronzio ogni qual volta qualcuno entri in quella stanza, allora, all'improvviso, accanto alla pianta da interni, il giradischi, la libreria e il tavolo di cristallo ecco che esisterà anche la mosca.

Applicando il teorema della mosca al tempo, riesco dunque a vederlo. E ciò mi accade con gli amici. La loro esistenza, i loro sguardi, le loro ansie e le loro felicità, i loro sorrisi e i loro abbracci, quando non sono solo di passaggio (come la mosca), ma si saldano nei giorni e negli anni con una forza ed una intensità tali da spaccare la terra e aggrappare le loro radici al centro del mondo, ecco, in questi casi, proprio in loro io vedo il tempo.

Lo guardo dall'alto, da quella nuvola rosa sulla quale mi trovo adesso con la donna che amo e dalla quale non voglio scendere più. Lo scorgo mentre prova a nascondere le sue spire in fretta, ma ormai è troppo tardi. E' bastato il suo movimento per farsi notare da me. Io lo osservo e sorrido sornione.

Proprio lui, il tempo, che voleva farmi credere che anch'io, prima o poi, avrei dovuto crescere, come tutti. Proprio lui, che si crede immortale e divino, trasparente e colossale in egual misura. Proprio lui, che invidia gli esseri umani e quindi assume la loro forma, per capire cosa vuol dire sognare o calpestare una merda. O semplicemente, per sentirsi amato dagli amici che non ha.

A differenza mia, che, grazie a loro, non crescerò mai.

mercoledì 12 ottobre 2011

Lo spettacolo.

Anche questa sera dormirò. Alla fine, il sonno prenderà il sopravvento, nel modo più naturale possibile. E io chiuderò gli occhi, prendendo in giro il sonno anche questa volta. Sì, perché la mia mente rimarrà sveglia, senza bisogno di caffè, ma solo grazie ai continui scossoni che le darà il cuore, tra un battito e l'altro.

E la mente penserà a te. Come sempre. Ignorando tutto il resto. E ce ne vuole, considerando quante miriadi di cose bussano alla porta di una mente in una notte, per essere ricordate. Eppure, pensa solo a te. La mente ha lo sguardo fisso sul tuo viso, sulle tue palpebre di miele.

Come fanno le cassiere quando un cliente va a pagare: guardano puntualmente in un'altra direzione, ignorando il malcapitato di turno mentre maneggiano il denaro e imbustano la merce, fissando un punto lontano verso il quale ognuno, dalla fila, si volterà almeno una volta, titubante, per capire di cosa si tratti.

Ecco, anche tutte le cose che passano per la mia mente, di notte, si voltano a guardare nella direzione dalla quale la mente stessa è attratta ogni attimo di più, avendo occhi solo per lei. E vedono ogni volta uno spettacolo diverso, ma comunque uno spettacolo.

Lo spettacolo di te che sorridi imbarazzata, arricciando poi il naso per cercare di frenare l'istinto che ti fa parlare con gli occhi. E alla fine nascondi il viso tra le mani, per contenere quel fiume in piena di sensazioni che ormai hai lasciato scorrere verso di me, spezzando dighe e argini che in fondo nessuno può credere possano davvero servire a fermarti.

Lo spettacolo dei tuoi gesti, soprattutto di quelli impercettibili, di cui mi accorgo solo io. Vocabolario di parole universali, che diventano particolari se rivolte a me. E che traducono significati molteplici, ognuno con un colore diverso, ognuno puro come le domande di un bambino, ognuno vivido e reale, sebbene a volte tu cerchi di nasconderli, incapace però di tenere il segreto per te.

Lo spettacolo della tua voce che, seppur sussurrata, provoca in me un trambusto assurdo. Perché parla di argento e oro, di cose vicine e lontane, di bianco e di nero, di sole e di luna. Di tutto, insomma. Di un tutto del quale non avevo mai avuto così bisogno in vita mia.

Lo spettacolo di te che non te lo spieghi e ti meravigli. E me lo domandi ancora. E ancora. E io, mentre ti rispondo, capisco quanto sia bello ripetersi. E sorprendersi ogni volta che ci interroghiamo a vicenda, come se fosse il primo giorno di scuola e mai l'ultimo.

Infine, lo spettacolo di te, che sei qui con me. E di me, che ancora non ci credo.

sabato 8 ottobre 2011

Tasche.

Tempo fa ho ritrovato in un cassetto un foglio di carta tutto spiegazzato. Su di esso c'era un disegno che avevo fatto da piccolo, che raffigurava due bambini in piedi uno accanto all'altro, io e mio fratello. Sì, ricordo che quella volta avevo deciso di ritrarre noi due, immutati compagni di banco della scuola della vita. Forse, proprio l'insolito soggetto del disegno (è difficile che un bambino ritragga se stesso e il fratello, in una fase dell'età in cui l'unico contatto che si ha tra fratelli è quello dei giochi o dei litigi) ha spinto i miei genitori a conservarlo. Magari non a metterlo in bella mostra in qualche cornice, data l'oggettiva bruttezza dell'opera e considerato il motivo unicamente affettivo alla base di questa scelta d'archivio. Perché gli affetti si tengono per sè, senza che occorra sbandierarli ai quattro venti.

Pur passando per uno discretamente bravo nel disegno, quella volta non ottenni un gran risultato, sebbene però, in verità, i miei unici capolavori presunti fossero per lo più l'immeritato frutto di pazienti ricalchi di celebri personaggi dei fumetti. Nel disegno in questione erano infatti ritratti due bambini, uno più alto dell'altro (e quello alto ero io, prova che, quantomeno in passato, il rapporto età/altezza tra me e mio fratello era direttamente proporzionale), con le braccia forse un pò troppo lunghe, magliette a tinta unita colorate non benissimo e pantaloni lunghi, con scarpe che tradivano un'eccessiva rotondità dei piedi e la probabile assenza di dita, data l'evidente difficoltà, che si riscontra per vero nelle matite di tutte le età, di disegnare correttamente e alla giusta distanza le dita dei piedi, come quelle delle mani.

Ma quello che mi colpì particolarmente, tenendo in mano quella reliquia dei tempi che furono, come un giovane archeologo che scopre un reperto inaspettatamente, è stato l'incredibile numero di tasche che avevo disegnato addosso ai due personaggi. Proprio così: tasche. Tasconi sui pantaloni, su entrambe le gambe, dalla vita alle caviglie, e sulle magliette, messe alla rinfusa, persino sulle maniche e sulle spalle.

Ricordo vagamente che per un periodo ebbi la passione delle tasche, ma non ricordavo che fosse così morbosa. Mi piaceva conservare tutto, cose, sguardi, emozioni, catalogarlo anche addosso a me, essere una biblioteca di ricordi ambulante, anzi deambulante. E penso che, forse, non ero poi così pazzo. In fondo, è da bambini che si riesce ad apprezzare davvero tutto, a fare di ogni momento vissuto, di ogni cosa toccata, un pezzetto di esperienza, minuscole fette di sapere per nutrire la vorace fame della curiosità, che divora miliardi di piccoli esseri umani in questo mondo, ogni giorno. Ed è quasi naturale che si tenda a voler conservare tutto questo, per paura che un domani esso sparisca, lasciandoci apparentemente soli e indifesi e, forse, definitivamente adulti.

Per questo, secondo me, servivano molte tasche. Non come adesso, che i miei vestiti sono perfettamente lisci e aderenti al corpo, e hanno piccole tasche, più per moda che utilità, dove per miracolo entra il portafoglio. Che ha molte tasche, è vero, ripiene dell'unica cosa che crediamo erroneamente sia davvero importante collezionare, chiudendo i ricordi nei cassetti della memoria e i sogni negli armadi delle stanze da letto. E voltandoci dall'altro lato ogni qual volta accade qualcosa al di fuori dei nostri schemi quotidiani.

E invece dovremmo avere ancora la voglia di conservare quello che ci capita ogni giorno. Come se raccogliessimo petali di esistenza per costruire un fiore completo, con l'umiltà di chi i fiori non va a comprarli direttamente dal fioraio, ma aspetta che crescano sul proprio giardino, se e quando la natura lo vorrà. Oppure, come tanti mattoncini che servono a costruire la torre dei desideri, che tutti sogniamo, ma che troppo presto rinunciamo a progettare, arrendendoci a quella che noi chiamiamo evidenza, senza sapere di aver appena dato un nome altisonante a un'invenzione già brevettata da altri, ossia il nulla.

Ho pensato a tutto questo quando ho rivisto quel disegno.

Poi, l'ho messo in tasca.

mercoledì 28 settembre 2011

La riserva di sorrisi.

A volte sorridiamo di default. Quasi senza accorgercene, all'improvviso, ci sorge sul viso una smorfia di gioia di cui davvero non sapremmo spiegare l'origine o il motivo. Può essere che in quel momento stiamo facendo tutto fuorché qualcosa di veramente allegro, eppure accade. Come quando su un tram, alla vista di un bimbo in un passeggino che gioca con la prima cosa che gli capita a tiro e sorride dimenandosi, tutti i passeggeri sorridono nella sua direzione. E poi magari, appena il bebè li saluta aprendo e chiudendo la manina, con un gesto tipico da nonno (è strano, ma nonni e bambini salutano allo stesso modo, sputacchiando pure), loro fanno finta di non vederlo e non ricambiano nemmeno con un cenno del capo.

Credo che ognuno di noi abbia una sorta di riserva di sorrisi, che il corpo fatica a trattenere quando sono così tanti da riempirla, perché essi vengono prodotti con continuità e non sempre vengono dispensati con la stessa frequenza. E dunque li lascia andare, quando non ce la fa più, e loro esplodono nei momenti meno opportuni. Ad esempio in chiesa durante un funerale, oppure mentre qualcuno ci sta facendo un discorso serio e noi vorremmo anche rispondergli in maniera altrettanto seria, ma sul più bello scoppiamo a ridere senza ragione, alle lacrime, appena guardiamo il nostro interlocutore negli occhi per fargli capire con chi avrebbe dovuto avere a che fare.

Il trucco sta allora nel saper dosare questa energia a trentadue denti, questa eruzione di felicità che sale dalle viscere dell'anima e si sprigiona nel cielo sotto forma di risate, lasciando qua e là tappeti di cenere di coriandoli colorati e riflessi arcobaleno negli occhi di chi ha la fortuna di trovarsi lì in quel preciso momento. Perché un sorriso si condivide, si scambia, si confronta con quello degli altri. Per formare un coro che, per lo più in silenzio, canterà per sempre l'inno della vita, in cui vortica chi si lascia andare ed esprime al massimo la gioia di godere della bellezza che, a conti fatti, è l'unica certezza immortale che abbiamo.

Ora capisco tante cose. Capisco perché, quando sorridi, perdo l'equilibrio, per un istante: è il mondo che si rimette a girare nel verso giusto. Capisco perché, quando sorridi, spariscono le nuvole dal cielo: è il sipario della volta celeste che si apre, col sole che fa capolino per vedere chi gli ha rubato la scena. Capisco perché, quando sorridi, c'è silenzio intorno a te: è la natura che ti osserva in estasi e non vuole essere svegliata.

Quando sorridi, sorrido pure io. Ma questo non riesco ancora a capirlo.

Credo che c'entri qualcosa il concetto di felicità.

venerdì 23 settembre 2011

Il mio primo ricordo.

Il mio primo ricordo sei tu. L'immagine di un viso che mi guarda mentre faccio finta di dormire su una spiaggia. In realtà socchiudo gli occhi per godere della vista di te su un tappeto di stelle, mentre mi accarezzi e mi sussurri parole che posso comprendere solo io, intervallate da silenzi rotti unicamente dal rumore delle onde del mare che ci fanno da coro discreto.

Il mio primo ricordo sei tu. Mentre parliamo seduti a un tavolino, in un cortile segreto, dicendoci tutto e niente, spesso guardandoci e basta, ridendo di cuore e ignorando tutti gli altri intorno, felici e rumorosi, belli come due fuochi d'artificio, che la gente vuole vedere sempre più da vicino nonostante i botti fragorosi.

Il mio primo ricordo sei tu. Su un dondolo che sembrava sapere già tutto, sospeso in attesa dell'istante in cui avremmo conosciuto le nostre labbra, per prendere le misure di un bacio perfetto. Se le cose sapessero parlare, di certo non ci direbbero ciò che è successo ma ciò che succederà, perché sanno prevederlo.

Il mio primo ricordo sei tu. Che ti divertivi a prendere in giro chi ci aveva visto giusto e ci faceva sedere vicini ancor prima che poi scegliessimo noi di farlo. Una sarta che ci aveva cucito l'uno con l'altra, con un filo di cotone profumato che poco dopo abbiamo scoperto insieme di possedere veramente.

Il mio primo ricordo sei tu. Con quei gesti che ci scambiavamo di nascosto, giocando ad un nascondino fatto di abbracci, nel quale chi trova l'altro non scappa via ma resta con lui. Attimi rubati al mondo che ci guardava distratto e sornione, come di chi sa qualcosa ma non vuole dirlo a nessuno, un pò per ripicca e un pò per noia.

Il mio primo ricordo sei tu. E te lo racconto ogni sera, prima di dormire. Per far sì che esso si formi nel nostro mondo di pensieri notturni, luogo magico nel quale ci incontriamo ogni volta che chiudiamo gli occhi. E dove ridiamo insieme di quello che ci è successo di giorno, avendo ormai capito che non ci basta più credere nella realtà, ora che abbiamo scoperto i sogni.

sabato 17 settembre 2011

Fate come i due liocorni.

Ogni tanto mi ritorna in mente quell'insulsa canzoncina che ci veniva cantata e che cantavamo da bambini e che metteva insieme un'accozzaglia di animali presi a casaccio - due coccodrilli, un orango - tango, due piccoli serpenti, un'aquila reale, un gatto, un topo e un elefante - e che, ignorando inspiegabilmente tutto il resto della fauna mondiale (che sentitamente ringraziava), affermava, con un piglio da Piero Angela, che "non manca più nessuno", se non fosse stato per quegli asociali dei due liocorni che "non si vedono".

Io ricollego questo tedio canoro a quelle festicciole in cui decine e decine di marmocchi (io di solito me ne stavo per i fatti miei, in verità), dopo aver devastato i salotti di innocenti case messi inopinatamente in ordine dalle famiglie ospitanti prima della calata di quei piccoli Unni (lavoro totalmente inutile: che fosse stato il palazzo reale o un trogolo non sarebbe cambiato nulla per quella marmaglia), venivano messi in riga da animatori poco animati e necessitanti di una rianimazione a fine pomeriggio, per cantare tutti insieme una serie di canzonette ridicole come questa. Che veniva sapientemente inserita al momento clou di quell'aborto di ballo di gruppo, in quanto hit intramontabile e di sicuro coinvolgimento, utile inoltre a dare il tempo agli stravolti genitori di sparecchiare la tavola dai panini al burro col salame e dalle patatine, per prepararla all'avvento della torta ("Questa è l'ultima: la prossima festa sarà quella dei 18 anni!". Le ultime parole famose.).

Al momento della kermesse canora, venivo dunque estratto dal cunicolo che mi ero saggiamente scavato per starmene tranquillo, per essere catapultato in quella simpatica baldoria. E' stato in quelle occasioni che ho scoperto il play back. Muovevo la bocca tipo pesce e il corpo come una marionetta, lasciandomi trascinare da quella folla di nani urlante e festante e sperando che il tutto finisse al più presto, magari con un colpo di scena (per esempio, con la caduta di un bambino e lacrime conseguenti) o con una mia fuga strategica.

Comunque sia, appena arrivava puntuale la canzoncina di cui sopra, evitando accuratamente di fare le mosse per imitare gli animali in oggetto, preferivo immaginarmeli. Non so voi, ma io vedevo due coccodrilli chissà perché in piedi e con la bocca sempre spalancata, evidentemente colpiti da una paresi facciale; un vecchio orango - tango rincoglionito, spelacchiato e incontinente; due piccoli serpenti, certo più simili a patetiche bisce che ad altro; un'aquila reale perennemente appollaiata e dormiente, che poteva essere benissimo un grosso piccione; e infine quel trio meraviglioso costituito dal gatto, dal topo e dall'elefante, con quest'ultimo che, forse per l'accostamento con due animali di taglia piccola, veniva da me immaginato piccolo in egual modo, delle dimensioni di un cane per intenderci, che in confronto Dumbo era già un gigante.

Se oggi penso a quella canzone, naturalmente, in prima battuta, sorrido. Poi però ci rifletto e mi rendo conto che rispecchia perfettamente la società di oggi, con la gente che cerca in ogni modo di diventare qualcuno, ispirandosi a modelli esterni che vengono portati sul palmo della mano e idolatrati, senza che in realtà abbiano un merito ben preciso, collezionando piuttosto, e a ben guardare, più demeriti che altro. E meritando, in effetti, di essere canzonati da un coro di bambini.

C'è chi vuole diventare come uno dei due coccodrilli, spietato e in combutta con qualcuno più stronzo di lui, pronto a sottrargli la preda per farlo morire di fame; chi invece preferisce accomodarsi in un luogo tranquillo e al riparo dal mondo, masticando per tutto il giorno quello che la natura gli offre e senza muovere un dito, nemmeno per ringraziare, come l'orango - tango; chi ha pensato bene di strisciare via e scappare dalle difficoltà di ogni giorno, avvinghiandosi intorno a tronchi di ulivo che prima o poi verranno colpiti da un fulmine, proprio come i due piccoli serpenti; c'è chi crede che stare in alto come l'aquila reale voglia dire comandare ed avere potere, ma non riesce a vedere cosa accade sulla terra, nella realtà di ogni giorno, finendo per vivere nel suo cielo di sogni; e chi, infine, si mette in società, come il gatto, il topo e l'elefante, in quel trilatero circolo vizioso in cui ognuno ha paura dell'altro e vive nella continua tensione di guardarsi le spalle, ignorando di fatto il futuro.

Ecco, bisognerebbe prendere come esempio i due liocorni. Che "non si vedono" perché, in realtà, non si vogliono far vedere. Lasciano che siano gli altri animali a farsi mettere alla berlina ogni santa volta che parte la canzoncina e si nascondono in qualche anfratto della foresta per costruire da sè il proprio futuro, trombando nelle pause e ridendo alle loro spalle.

Ecco perché, se ci pensate, nessuno, in effetti, ha mai visto un liocorno.

giovedì 15 settembre 2011

Ho preso una valigia.

Ho preso una valigia. E ho iniziato riempirla.

Ho messo innanzitutto una treccia di capelli dorati come spighe di grano, che casca sulla spalla e sul petto dal lato del cuore, come quella di una bambina che ti osserva con lo sguardo di chi, nonostante i rimproveri, non ha mai smesso di giocare.

Poi ho messo un paio di occhi, con iridi azzurri come il cielo o verdi come erba appena tagliata, che cambiano colore a seconda dei giorni o del caso, fatti per circondare una pupilla a forma di raggi solari, un girasole in primo piano, visto dal basso in alto, che si staglia bellissimo verso quel cielo o verso quel prato.

Ho proseguito con un paio di labbra morbide, che sanno di cioccolato al latte e formano il contorno di sorrisi accesi o espressioni incantate di chi ha ancora la capacità di meravigliarsi.

Ho sistemato con cura due guance che arrossiscono al primo sole d'estate o alla prima occasione in cui mostrare con orgoglio la propria timidezza. E un naso perfetto, che dà a quel profilo il tocco di grazia, silhouette in controluce che rende quel viso inconfondibile.

Ho messo mani affusolate, che sanno spegnere incendi senza acqua, ma con una semplice carezza. E braccia che regalano abbracci improvvisi e spontanei, come fiori cresciuti tra i gradini di una chiesa. E gambe che, attraverso i piedi, si muovono sinuose e vitali, femmine vanitose che si accavallano sensuali, quasi per scherzo.

Ho continuato con un corpo candido come la neve, formoso come le onde del mare, piccolo come una conchiglia stretta in una mano, soffice come le nuvole, profumato come foglie di limone, caldo come una brioche appena sfornata.

Infine, ho messo un piccolo scrigno di legno e ti ho detto che dentro ci avrei custodito il tempo. E che tu, una volta aperta la scatola, non avresti potuto afferrarne il contenuto con le mani. Per il semplice fatto che lo scrigno sarebbe stato vuoto. Perché il tempo, in fondo, non esiste.

Ho preso una valigia. E ci ho messo te.

martedì 6 settembre 2011

L'arte di sapersi ripetere.

Senza che ce ne rendiamo davvero conto, la nostra vita è un continuo ripetersi.

Tendiamo, cioè, a riproporre nel presente situazioni vissute di cui non possiamo fare a meno, il più delle volte fallendo clamorosamente nel nostro intento, finendo per ricreare patetiche imitazioni del passato che non fanno nemmeno ridere. Il tutto perché, indubbiamente, un fiore è più luminoso quando lo si coglie da un campo dove cresce spontaneo sotto i raggi del sole, piuttosto che da un vaso di terracotta tenuto in casa dal quale gli unici raggi che può vedere sono quelli d'acqua di un annaffiatoio.

Ci definiamo originali, mentre invece commettiamo ogni giorno il più squallido dei plagi, ossia quello di copiare noi stessi. Echi senza voce e senza forma, convinti di essere una melodia suonata dal vento fra gli alberi di quella montagna che riflette e ripete ogni cosa meccanicamente, come una moglie che fa l'amore col marito solo per fargli un regalo di compleanno.

Applaudiamo entusiasti per il solo fine di richiedere il bis. Perché davvero più di così non pensiamo sia possibile ottenere da quell'esibizione. Eppure, nonostante le richieste a gran voce, l'artista, che è andato dietro le quinte, non uscirà più sul palco. E si accenderanno le luci in sala, abbagliando gli astanti ancora emozionati, come i fari di una macchina in faccia a un coniglio che attraversa la strada di notte e resta impalato dinanzi a quella visione celestiale. O almeno così crediamo che sia, non conoscendo come sia fatto il paradiso dei conigli.

In verità, se per un attimo riuscissimo a guardare oltre la nostra faccia riflessa nello specchio - cioè ci specchiassimo non solo per abbellirci il viso per piacere agli altri prima ancora che a noi stessi, come tristi clown dal trucco sfocato non perché stanno piangendo - ecco, se riuscissimo a guardare anche lo sfondo dietro di noi, allora le cose cambierebbero.

Non è da tutti ignorare ciò che si vede in primo piano, soprattutto se siamo noi stessi i protagonisti di quel ritratto, realizzato da un autore anonimo ma comunque famoso, essendo esposto e citato nei musei di tutto il mondo e nelle nostre case, sebbene non se ne conosca, in effetti, neppure il nome. Saremmo finalmente consapevoli della realtà e della nostra modestia. E della nostra piccolezza umana, che ci porta continuamente a voler ripetere gesti e a rivivere momenti, perché semplicemente ci hanno fatto bene, pezzuole che puliscono le nostre lenti che si sporcano mentre guardiamo il mondo.

E a quel punto diventeremo tutti artisti della ripetizione, pittori che dipingono con puntini identici tra loro, ma che nel complesso e a lungo andare formano un quadro incredibile, un paesaggio bellissimo che cambia di continuo. Pittori che relegheranno il proprio autoritratto in una parte del dipinto che non è più il primo piano, perché hanno scoperto quello che c'è dietro. E lo vogliono ripetere, seppure solo sulla tela.

Io mi ripeto, è vero, perché seguo l'ispirazione. Anche lei, infatti, ha dei precisi punti di riferimento e scatta ogni qual volta li avverte o li vuole avvertire. Io mi fido e, in base a quello che mi sussurra, mi metto a scrivere. E sto bene.

Poi ci sarà qualcuno che mi applaudirà e vorrà il bis.

giovedì 1 settembre 2011

Uno settembre.

L'uno settembre è probabilmente il giorno più brutto dell'anno. E' l'inizio e la fine insieme, terribile ossimoro che crea incertezza di stati d'animo. L'inizio di un mese e la fine di una stagione, alla faccia dei solstizi e degli equinozi, giorni di confine già di per sè impronunciabili.

Tutto intorno si fa più scuro. La luce accecante dell'estate, che ha raggiunto il culmine nel mese di agosto, piano piano si offusca. Come se qualcuno, con un telecomando, abbia deciso di diminuire la luminosità dell'immagine di quella trasmissione senza pubblicità che è la vita. Oppure come un velo di cenere che un'eruzione vulcanica ha depositato su ogni cosa, così da riportarci a terra, dopo che abbiamo intrapreso la scalata di quel vulcano raggiungendone la cima sotto un sole caldo e sorridente, a piedi nudi per la fretta di arrivare prima degli altri.

I colori tendono dunque al grigio, ma non quel grigio brutto che ispira tristezza. Piuttosto, è un colore di chiusura, serio e austero, malinconico al punto giusto, rassicurante come la mano di un padre che si posa sulla testa del figlio e lo consola, se per un momento una lacrima dovesse rigargli il viso, accanto alle gocce d'acqua di piogge rinfrescanti che si riaffacciano sul mondo, anche loro in punta di piedi, morbide e discrete.

Si svuotano le strade, le spiagge, i cuori. Si riempiono però gli occhi, di ricordi recenti che forse ancora non sono catalogabili come ricordi, perché i concetti di ieri o avant'ieri non sono conciliabili con il passato, bensì assomigliano piuttosto a un presente con qualche ruga, ma ancora affascinante, tantè che lo si racconta di continuo, tra amici e parenti, per celebrarne la bellezza, con dovizia di particolari e di sorrisi.

Penso a tutto questo quando l'uno settembre percorro in macchina il tragitto che per poche altre volte, quest'anno, mi porterà da casa al mare e viceversa. Quel mare che alle otto di sera è ancora caldo e si colora di rosso perché sullo sfondo il sole sta tramontando, impaziente di lasciare il posto alla luna, che in realtà è già piazzata lì, a forma di falcetto, come un ghigno sinuoso, sottile e beffardo. Come un ciglio caduto dall'occhio del cielo.

Perché anche il cielo saluta l'estate. E chiude gli occhi per la goduria di chi ne assapora gli ultimi istanti.

martedì 30 agosto 2011

Tutti per uno, dove l'uno sono io.

Mi piace stare con la gente. Ci ho provato ad abbracciare la solitudine, a darle una possibilità, a guardarla negli occhi invece di far finta, ogni volta, di non averla vista. Ma non ce l'ho fatta. Alla fine, dopo averla presa per mano e baciata sulle labbra, le ho sempre voltato le spalle e ho cercato la gente, il calore umano, la confusione di braccia, teste e gambe, per coprirmi con trapunte di corpi, per riscaldarmi dentro, a prescindere dalla temperatura esterna.

Io non credo a chi dice che la maggior parte delle volte è meglio restare un pò da soli. Che è sufficiente la compagnia di se stessi. Piuttosto, penso che in quei casi ognuno sia colpito da un eccesso di gente, passatemi la frase. E perciò occorre far tornare quel fiume che ha superato gli argini sotto il livello di guardia. Insomma, è un fatto di necessità e non di scelta.

Ebbene, io amo gli altri: i gruppi improvvisati una sera davanti a un falò o ad un microfono di un karaoke, i compagni di un viaggio organizzato, amici vari in prima fila ad un concerto, persone che si confrontano per risolvere un cruciverba oppure una situazione complicata. Parole, sorrisi, gesti, sguardi, contatti astratti o reali che danno vita a circuiti elettrici che scorrono nella terra e si accendono al passaggio della vita, attraverso lo sfregamento dei piedi.

Tutti per uno, dove l'uno sono io, bisognoso della presenza della gente, della certezza della loro esistenza, un Robinson Crusoe con tutti i giorni della settimana a disposizione, non solo Venerdì. E uno per tutti, dove l'uno sono sempre io, intento a fare qualcosa per ringraziare (per) ogni giorno della settimana.

Non riesco a stare solo. E' un concetto che per me non esiste, come Babbo Natale con le sue renne volanti. Ci ho creduto, è vero. Ma mai così tanto da trasformare in certezza tutto ciò. Certe illusioni possono anche risultare piacevoli. Ma, alla fine, il bisogno di credere in qualcosa di magico si trasforma in bisogno di credere in qualcuno in carne e ossa. E solo quando si riesce ad avvertire questa necessità, si scopre veramente di vivere nel mondo.

Per chi come me, ancora oggi, la notte di Natale si affaccia alla finestra e aspetta che arrivi Babbo Natale su una slitta trainata da renne volanti. E che non rimane più deluso dall'inutile attesa, perché tutti coloro con cui sta aspettando la mezzanotte lo rassicurano sul fatto che Babbo Natale non esiste.

Perché esistono loro.

mercoledì 24 agosto 2011

Occhi.

Occhi che ti guardano. Basterebbe questo, se sono quelli giusti. Per afferrare ciò che altre parti del corpo difficilmente riuscirebbero ad esprimere allo stesso modo. Desiderio, curiosità, malinconia, delusione, sorpresa, felicità. Gli occhi parlano una lingua tutta loro. E ben pochi sono gli interpreti in grado di decifrarla.

Io impazzisco per gli occhi. Mi perdo nei loro tormentati e molteplici stati d'animo. Sto lì in attesa che si aprano, come un bambino davanti alla tv, seduto sul pavimento con le gambe incrociate, che aspetta l'inizio del film che ha già visto milioni di volte. Li osservo con attenzione quando si chiudono, ostriche rosa che nascondono al mondo iridi di perle. Soffro quando piangono, arcobaleni che gocciolano acqua multicolore. Esulto quando ridono, perché vuol dire che la vita ha vinto ancora. Sorrido quando strabuzzano, perché la meraviglia è indice di disincanto.

Viaggio per gli oceani di due occhi blu come un cielo senza nuvole, per le strade infinite di due occhi neri come la pece, per sentieri montuosi di due occhi verdi come foreste vergini, per i deserti di due occhi castani come le foglie d'autunno. Viaggio e puntualmente mi perdo. Avendo appositamente lasciato la bussola a casa.

E ogni tanto mi ricordo di quando, da bambino, mia mamma avvicinava il suo volto al mio e, toccando la punta del mio naso con la punta del suo, mi faceva giocare a vedere un solo occhio. Due occhi in due, ciclopi per scherzo. Rimanevo incantato per pochi istanti, anche perché, sforzandomi a lungo in quell'esperimento, mi si stancava la vista. Però quel che vedevo in quegli attimi era qualcosa di straordinario: avvertivo la potenza di due occhi in uno, un unico fuoco divampante di un colore accesissimo e senza alcun battito di ciglia.

Ogni tanto penso a come sarebbe la mia vita senza gli occhi. La risposta è che non sarebbe. Chi ha gli occhi per vedere ha la fortuna di godere quotidianamente del mondo e la possibilità di trovare un riscontro reale a ciò che ha sempre immaginato di giorno o sognato di notte.

Io, più semplicemente, utilizzo gli occhi per vedere altri occhi. Per comprendere il mondo attraverso la sua immagine riflessa in quei due specchi dell'anima. Protetta da quegli scrigni intermittenti che si chiamano palpebre.

Che permettono di conservare intatto il ricordo del tempo. E con esso, il segreto della vita.

lunedì 22 agosto 2011

Foto per me.

Io non sono un grande fotografo. Mi piace la fotografia in genere, soprattutto il suo ormai superato esito cartaceo, testimonianza del miracolo di riuscire a fermare per sempre il tempo con un banale tocco dell'indice. Il destino, però, mi ha messo in mano una buona macchina fotografica, in testa la solita curiosità di imparare cose nuove e accanto un amico fraterno che, con molta pazienza, mi sta spiegando in che direzione instradare questa mia curiosità, ricordandomi sempre di ricordare "com'è difficile trovare l'alba dentro l'imbrunire". Soprattutto con una macchina fotografica.

Mi sono accorto, giorno dopo giorno, che molte volte per scattare una bella foto occorre voltarsi all'improvviso, invertire il senso di marcia rispetto alla folla o alla gente che sta camminando con te, sorprendere il flusso del tempo e delle giornate cambiandone lo sviluppo naturale. Bisogna, cioè, sopperire all'assenza degli occhi sulla nuca, dirigendo lo sguardo alle proprie spalle. Si aprirà un mondo nuovo, sebbene sia, in fondo, la stessa realtà in cui fino a pochi secondi prima stavi normalmente muovendoti, però in direzione opposta. E' anche una questione di punti di vista, che sono poi quelli che ci fregano, il più delle volte.

E' il concetto del guardarsi indietro quello che sintetizza tutto ciò. D'altronde, ogni singola foto, una volta scattata, è già passato. Una foto è come minimo coniugata al passato prossimo, nasce vecchia, disconosce totalmente il presente. Tutt'al più si proietta nel futuro, sperando di essere ancora all'altezza anche negli anni a venire, data l'impossibilità oggettiva di modificarsi e cambiare seguendo l'evoluzione dei tempi. Anche la foto, come i suoi protagonisti, si mette in posa. Aspetta, cioè, di essere ripresa in mano da qualcuno, di essere colta come un frutto, quando è matura per l'occasione. E sta a noi, in questi casi, non lasciarla marcire o invadere dai vermi.

Credo allora che sia proprio la mia sconsiderata inclinazione a guardarmi indietro nel tempo a farmi amare la fotografia. Perché è in effetti l'unico mezzo per rendere reale questo orribile lato del mio carattere, assecondando il mio sadico desiderio di rivivere il passato più doloroso che ho con un semplice click. Sfogliando le pagine di enormi album fotografici, tutti pazientemente creati e conservati nella mia mente. Foto che vorrei regalare, se non fosse che so per certo che non sarebbero un regalo gradito.

Per chi come me sta sempre dietro l'obiettivo, ogni volta desiderando ardentemente di trovarsi dall'altra parte.

domenica 21 agosto 2011

La mia città.

Messina è la mia città, su questo non ci piove. E meno male, perché ogni volta che piove magicamente si creano ingorghi dal nulla e la gente alla guida impazzisce. Oppure l'acqua si insinua nei torrenti vuoti sotto le strade e quando li riempie tutti sgorga fuori dall'asfalto, formando simpatiche fontanelle simili a sorgive. E a quel punto il messinese rimpiange la siccità, rivendicando il proprio diritto ad ammirare deserti e a possedere dromedari, data la vicinanza con l'Africa. Senonché, nei periodi più caldi dell'anno, ecco che all'improvviso egli sente il bisogno della pioggia. Così, tanto per scacciare quell'afa terribile.

Insomma, siamo una continua contraddizione. Un paradosso all'infinito. Abbiamo voluto (anzi, rivoluto) il tram per spostarci nel centro cittadino ed evitare le code con la macchina o quelle alle fermate degli autobus, più rari di un cestino della spazzatura sui Colli San Rizzo. E alla fine, dopo anni e anni di lavori (ovviamente in ritardo rispetto alle previsioni), a parte macroscopici errori di progettazione - si pensi all'acqua piovana che ristagna in inspiegabili conche lungo i binari - o stranissime pensiline con la copertura a listelli - che, anziché riparare durante l'attesa, canalizzano la pioggia e il vento sul cervelletto del malcapitato di turno - il percorso del tram è stato deviato dalle vie del centro, perché rischiava di compromettere una processione cittadina che si svolge una (dicasi una!) volta l'anno, ossia la Vara.

Ecco, appunto, prendiamo la Vara, simbolo del paradosso per eccellenza: i fedeli che tirano le corde del carro votivo all'urlo di Viva Maria, per poi bestemmiare durante il tragitto per la fatica e lo sforzo. In un miscuglio di sacro e blasfemo, devoto e profano, tipico delle manifestazioni religiose della nostra isola.

E poi ci sono le macchine ferme in doppia fila davanti a parcheggi vuoti, quasi in segno di rispetto per lo straordinario evento rappresentato da un posto vacante lungo la strada o forse al solo fine di ammirare le strisce blu solitamente celate da ingorde ruote che ne disprezzano la geometria quasi perfetta. Oppure, la spazzatura che gironzola per la città tra l'indifferenza generale, evidenziandosi ancor di più non tanto il problema del fare pulizia, quanto invece quello di mantenere la pulizia stessa. E ciò in quanto il messinese è campione olimpico di lancio del rifiuto dall'auto o dalla finestra, in esecuzione di quella disgustosa usanza tutta nostra per cui il proprio orticello è lindo come il culo di un bambino, mentre le cose comuni sono luride come il bagno di un'area di servizio sulla Sa-Rc. Anche perché, come direbbe un messinese all'esito di una riflessione accurata sul punto, "sono stati gli altri a sporcare e poi c'è gente pagata per pulire le strade".

Per questi motivi, ogni tanto, non la sopporto proprio questa città. Poi, però, vedo il mare. Che, nonostante tutto, continua a circondarci placido, incazzandosi qualche volta, ma comunque difendendoci dalla terra ferma. Ricalcando di blu i contorni della nostra isola, partendo proprio dalla punta più vicina al resto del mondo, ossia da Messina. Che quindi è sempre stata l'inizio del quadro, il primo puntino di colore di quel meraviglioso dipinto che è la Sicilia.

Perché è facile giudicare una tela quando l'artista finisce di dipingerla. Ma è impossibile indovinare da quale punto ha iniziato. Noi messinesi, per il semplice fatto di essere nati in quest'angolo di mondo - cullati fin da piccoli dalle onde del mare, riscaldati e colorati dai generosi raggi del sole, protetti dalle spine dei fichi d'India - la risposta a questa domanda ce l'abbiamo dentro.

E per fortuna, ancora, non ce ne siamo resi conto.







mercoledì 10 agosto 2011

Volare col vento.

Vento di maestrale. Ieri era grecale. Stamattina libeccio, o almeno così sembrava, perché, come dice sempre mio padre, "se non capisci che vento è, allora è libeccio". La rosa dei venti che turbina e si agita tra le mani di non so chi, che evidentemente è innamorato di una donna e, seduto su una nuvola, studia le probabilità di successo di quel tormentato amore sfogliando e staccando i petali di quella rosa al ritmo del più classico dei "m'ama o non m'ama". E ad ogni petalo che cade nel vuoto, sparisce il corrispondente vento e si fa strada quello successivo, secondo un ordine prestabilito che, come mi ha insegnato mio nonno che adesso i venti li guarda e li ascolta da dove essi hanno origine, risponde al nome del musicale acronimo "gre-sci-li-ma".

Lo spettacolo del tempo che corregge il suo stato d'animo per non contraddire il vento e andare d'accordo con lui. L'afa che si innalza nel cielo quando spira lo scirocco, il vento della terra, della sabbia; il cielo pulito dalle nuvole e di un azzurro intensissimo quando è spirato il grecale, il vento di bel tempo; il mare mosso e scosso quando soffia il greve e grave maestrale; l'aria indecisa e le nuvole che bussano alla porta quando arriva il libeccio. Starei un intero giorno a guardare tutta questa bellezza, a osservare la potenza della natura che, con uno schiocco di dita, è in grado di sconvolgere tutto e subito dopo di riportare la calma su quel tutto tremante e sudato.

Per questo penso che sia il vento il vero signore silenzioso del mondo. Un portentoso soffio di vita che ci spinge verso mete ignote: basta lasciarsi trasportare, come fanno gli uccelli quando fingono di volare, ma in realtà aprono le ali solo per beccare la corrente giusta e, tenendole immobili, arrivare a destinazione. E sarebbe sbagliato fermarsi davanti all'apparenza che ci induce a credere che noi le ali non le abbiamo e mai potremo averle. In verità, noi non le abbiamo incorporate come gli uccelli, ma possiamo crearle dal nulla e indossarle all'occorrenza, ad esempio leggendo un libro, oppure sognando di notte, oppure ancora semplicemente amando qualcuno.

A quel punto, quando esse magicamente saranno apparse di fianco a te e tu le avrai poggiate sulle tue spalle, sorpreso del fatto che siano della misura giusta al primo tentativo, allora non resterà che affacciarsi alla finestra e attendere il vento giusto. E quando arriverà, e lo saprai solo tu, ti porterà con sè e finalmente sarai in volo e potrai fare l'occhiolino ai gabbiani che ti volano accanto. Avvolto da quella brezza che, vista dall'alto, è veramente tutta un'altra cosa.

E profuma delle pagine del libro che stavi leggendo o del letto in cui stavi dormendo. O della donna che ami. E basterà una sola occhiata per riconoscerla dall'alto, tra la gente. Ognuno è un puntino visto da lassù, ma lei è quello che, ai tuoi occhi, brilla come e più di una stella. La saluterai agitando goffamente un'ala e quando tornerai a terra e le ali saranno sparite lei ti correrà incontro e ti abbraccerà sorridendo.

E accarezzandoti, tra i tuoi capelli o sulle tue spalle, troverà una piuma.

"La vertigine non è paura di cadere, ma voglia di volare".

lunedì 8 agosto 2011

La bellezza di chi si arrangia.

Aiutati, che Dio ti aiuta. Arrangiati, che qualche cosa succederà. Anche se è molto più facile farlo con le persone giuste accanto. Per sentire il loro calore e usarlo come carburante per viaggi interstellari. Ognuno di noi, infatti, è un fiammifero che sogna di diventare un fuoco d'artificio. Se acceso sprigiona calore, appunto. Ed emana una luce che, seppur fioca, unita alle altre forma un paesaggio bellissimo, se visto dall'alto e al buio di una notte stellata. Le stelle, infatti, altro non sono che la proiezione in cielo di noi fiammiferi a forma di essere umano. E ci invidiano da morire, perché non possono avvicinarsi tra loro più di quanto lo siano già, così da poter sentire a vicenda il proprio calore. Per questo hanno bisogno del sole che di giorno riscalda la culla celeste dove esse riposano ogni notte, sotto lo sguardo vigile della luna.

Non dobbiamo dunque buttare via questa fortuna. Non dobbiamo, cioè, lasciare che qualcuno o qualcosa ci spenga. Piuttosto, il primo alito di vento deve essere l'occasione per alzare la testa e mostrare la nostra piccola fiammella testarda e orgogliosa al mondo intero. Stringendo la mano di chi ci sta accanto per mantenere la fiamma accesa per mezzo del suo calore generoso. Di chi, cioè, ci sta accanto non per caso.

Mi arrangio. E in questo sta tutta la bellezza. Quella bellezza che si manifesta all'improvviso, altrimenti non sarebbe la stessa cosa, perché te l'aspetteresti. E invece è come girare la curva e vedere un panorama mozzafiato che non avresti mai immaginato di incontrare dopo quella lunga e tortuosa strada tra le montagne, che tra l'altro stai ancora percorrendo. Ma le montagne ti hanno fatto questo regalo, abbassando per un attimo la testa per mostrare al mondo ciò che gelosamente tengono nascosto da quando il mondo stesso altro non era che un bimbo in fasce in braccio a Dio.

Chi si arrangia coglie questa bellezza. Perché si lascia cullare dagli eventi, consapevole del fatto che essi non capitano mai senza una ragione. E quindi non resta che arrangiarsi affinché, così facendo, si possa entrare in quel flusso di vita senza disturbare, riuscendo a godere ugualmente della sua potenza primigenia. E soprattutto, come detto, del modo inaspettato in cui essa si manifesta. Per esempio, la bellezza che ti coglie quando ti volti verso il mare e scorgi nella folla in acqua una coppia di anziani che giocano a palla, ridendo e divertendosi come bambini. E lo sarebbero veramente, se non avessero sulle spalle qualche acciacco di troppo, sul viso qualche ruga in più e nel cuore tutto l'amore che ogni giorno, da anni, si scambiano a vicenda come se fosse la prima volta.

Oppure è la bellezza di quando riesci a capirti con chi parla una lingua incomprensibile e trova altrettanto incomprensibile la tua. Bastano alcuni gesti, qualche sguardo, tanto sorrisi e molta luce, soprattutto dentro di te. Per ridere delle naturali incomprensioni e costruire su quella risata un robusto scaffale in cui archiviare, tra gli altri, anche quel libro di ricordi che stai giust'appunto scrivendo in quel momento.

Perché, in fondo, anche la nostra presenza in questo mondo troppo tondo è un continuo arrangiarsi per non cadere. E se riesci a capire che proprio in questo sta il succo del frutto della vita, allora potrai berlo tutto fino all'ultima goccia, lasciando che te ne scorra un pò sul muso e sui vestiti. E asciugandoti con quello che capita. Arrangiandoti, appunto.

Perché non puoi perdere tempo, quando avrai visto la bellezza. Perché a quel punto ci sarà troppo da vivere.









giovedì 28 luglio 2011

Confuso.

Sono confuso. Lo sono sempre stato, in realtà. Solo che adesso me ne rendo davvero conto. Prima, infatti, pur non facendoci caso, quando gli altri me lo facevano notare, un pò ci rimanevo male, tant'è che finivo per autoaccusarmi di un'immaturità che, a ben pensarci, per l'età che avevo, era già di suo un gesto di precoce maturità. Adesso, invece, il fatto di essere confuso mi piace da morire. E' una sensazione strana, un pò come quando, per intenderci, sei davanti ad un tris di primi e non sai da dove cominciare. L'enormità del tutto, o per lo meno del tutto ciò che è disponibile, rende incapaci di pensare, imbambolando chiunque sull'orlo del pentolone delle possibilità.

E sebbene la confusione sia decisamente la situazione meno indicata per sentirsi sicuri del domani, io, invece, ravviso in essa una sorta di pacifica pienezza che mi tranquillizza, essendo tutte le carte ancora nel mazzo e tutti i giocatori ancora fermi al proprio posto con lo stesso numero di fiches. Ecco, la confusione, pur rendendomi ancora più cervellotico, mi appaga al tempo stesso. Anzi, mi spinge a provare nuove esperienze e a cercare altre vie, per poi percorrerle e, eventualmente, tornare indietro. Sento il bisogno di mettermi in gioco, di sedermi a quel tavolo e scambiare un pò di fiches pure io. Forte della certezza di non avere certezze.

E'assurdo tutto questo. Poi, per uno come me che pianifica ogni minima cosa, è addirittura preoccupante. Però, con molta onestà, mi sono riscoperto incapace di pianificare le grandi cose. Sono uno sputo nel mondo, non posso pretendere di ordinare anche il mio futuro. Perciò, lo voglio sfruttare così com'è, ossia disordinato, caotico, nebuloso e, appunto, confuso. Come me. Che non so giocare a carte.

E quindi, un passo alla volta. Una esperienza alla volta. Una carta alla volta. Subendo, porgendo l'altra guancia, ma poi reagendo quando le guance sono finite. Sbattendo contro muri reali e immaginari e, a volte, trovando un modo per scavalcarli. Zoppicando con lo zoppo o correndo per surclassarlo. Con l'indice e il medio alzati come simbolo di vittoria, oppure in gola per vomitare. Amando chi voglio amare e odiando chi me lo impedisce. Tuffandomi nel vuoto e, durante la discesa verso l'ignoto, non pensando a quello che potrà esserci sott'acqua ma a come asciugarmi una volta uscito.

E poi mi potrò sedere sul bordo di quell'enorme specchio d'acqua, con i piedi penzoloni, ridendo di ciò che prima temevo, e mi metterò a pescare. E sono sicuro che, pur non avendo mai pescato in vita mia, la preda abboccherà subito. Con un ultimo strattone, sia fisico che mentale, mi renderò infatti conto di aver appena tirato a riva proprio quella carta con cui vincerò la partita. E io, col frutto della mia vincita in mano, salutando i miei compagni di viaggio, mi alzerò da quel tavolo da gioco. E siederò in quello successivo.

Questa volta, però, prenderò posto accanto alla confusione. Così le potrò guardare le carte.

mercoledì 27 luglio 2011

Il futuro.

C'è chi si chiede quale sarà il proprio futuro. Io, invece, mi domando cosa sia il futuro. Anche perché, se ci fate caso, il solo fatto di pensare al futuro rappresenta una contraddizione in termini. Il verbo "pensare", infatti, si modella sul passato, su qualcosa di cui, in un modo o nell'altro, si ha una certa cognizione, magari incompleta, ma dai contorni abbastanza netti. E dunque la si può pensare. Invece, il futuro è per definizione un'incognita e non si può pensare ad un'incognita, al massimo ci si può impegnare a risolverla, a darle un valore, una forma, un significato. E perché no, trasformarla in certezza. Ma a quel punto non è più futuro, perché, senza rendersene conto, mentre si cerca di venir fuori da quell'equazione apparentemente irrisolvibile, ci si ritrova catapultati nel presente.

E perciò al futuro non si può pensare, giacché vorrebbe dire essere come minimo veggenti. Io ritengo che, invece, il futuro lo si possa solo immaginare. Come se avessimo in mano i pezzi angolari di un puzzle e dovessimo costruire e poi incastrare i restanti pezzi centrali solo con la nostra abilità di inventori del domani.

Oppure si può immaginare il futuro guardando l'orizzonte attraverso un bicchiere d'acqua, per giocare a capire quale sia il suo aspetto, sfruttando i suggerimenti delle nuvole che, spostate e sovrapposte dal vento, assumono le forme più disparate. Che avranno un nome diverso a seconda se quel bicchiere lo si intenda mezzo pieno o mezzo vuoto.

Sul muro di fronte alla mia scrivania ho attaccato, senza un ordine preciso, alcuni ritagli di giornale che contengono frasi riguardanti il futuro. Non so perché l'ho fatto. Le ho lette la prima volta e, ancor prima di capirle, già pensavo a fissarle in un punto che mi fornisse la possibilità di tenerle sempre d'occhio. Di sbirciarle quando ne avrei avuto voglia o bisogno. Per ricordarmi non tanto dove andrò, quanto piuttosto come ci arriverò.

Il futuro fa paura, perché fa paura prendere una decisione che cominci a dare una forma a quel futuro. Credo, però, che questo sia un modo sbagliato di approcciare il problema. E' chiaro che non basta girare il calendario prima del tempo o portare avanti l'orologio all'improvviso, non è sufficiente posticipare una sveglia che è suonata troppo presto o sfogliare il libro che si sta leggendo o studiando per vedere quante pagine mancano. E men che meno, come dice il proverbio, è corretto rimandare a domani quello che si potrebbe fare oggi. Questi sono tutti escamotages, illusioni di futuro che servono solo a farsi del male. Tentativi maldestri di correre più veloce del tempo, credendo di andare dritto mentre invece si sta correndo in verticale, affondando nelle sabbie mobili di una tragicommedia di cui si è regista, sceneggiatore e interprete principale.

In realtà, chi prende una decisione importante, senza aver paura di pensare e poi attuare tale decisione, dissipando gli inevitabili dubbi a essa connessi in una chiacchierata con un amico o nel fumo di una sigaretta, il futuro non l'ha ancora superato.

Senza accorgersene, però, gli sta correndo accanto.

Il futuro è nelle mani di chi ha il coraggio e la fortuna di modellare la propria vita a immagine e somiglianza del proprio destino.

martedì 26 luglio 2011

L'idea del viaggio.

Quand'è che si viaggia veramente? Io credo che sia troppo facile collegare il concetto di viaggio ad una settimana trascorsa lontano da casa, magari d'estate. Penso invece che sia l'idea del viaggio in quanto tale a farci crescere davvero le ali, a dispetto di tutti coloro che credono solo negli angeli. Si tratta di brevi momenti, per lo più, in cui ti incanti all'improvviso fantasticando su luoghi lontani o semplicemente ricordandone alcuni che hai già visto in un tempo ormai troppo passato e che per questo necessita di essere attualizzato al più presto, quantomeno in quella parte di cervello che è collegata al cuore.

A volte basta immaginare situazioni e persone nuove in un contesto conosciuto per sentirsi in viaggio. Oppure, ripercorrere uno stesso tragitto per finalità diverse dal solito. E' una questione di geografia dell'anima che, come un mappamondo, gira a tutta velocità attorno all'asse del tuo corpo e ogni tanto si sofferma su un luogo, mostrandone i contorni in modo nitido e pieno, anche e soprattutto se quel posto non l'hai mai visto. Poiché in quel caso sovviene l'immaginazione, che disegna con mano ferma qualsiasi cosa, creando dal nulla città e quartieri, paesaggi e strade, persone e cose. Di una bellezza così accecante che sembrano finte, quasi inventate. Che poi, in effetti, sarebbe proprio così se non fosse che l'immaginazione, per completare il proprio lavoro, si accompagna con l'illusione del vero, trasformando in realtà ciò che reale, in fondo, non è.

Ci sono volte, invece, in cui una semplice discussione con uno sconosciuto su un treno può risvegliare la sensazione del viaggio. A me capita, in questi casi, di sentirmi un puntino bianco qualsiasi nello sterminato foglio del mondo. Ed è proprio quel voluto anonimato a rendermi importante. Perché posso andare dovunque, fare qualsiasi cosa, senza uno schema preciso, godendo della brezza dell'improvvisazione che soffia per spazzare via l'afa dei precisi ingranaggi della quotidianità. Mi sento onnipotente perché imprevedibile, soprattutto da me stesso. Una scheggia impazzita nell'asse legnoso del mondo. Pronto a saltare quando sentirò la musica giusta per farlo.

Non dico che non ci sia bisogno di viaggiare veramente. Dico solo che non bisogna arrendersi quando non c'è la possibilità di farlo. Perché l'idea del viaggio é dentro l'uomo, che appunto è un essere che pensa e ama. E non a caso, proprio per questo, ha dato un nome ai sogni e ha scoperto le stelle.

Dedicato a tutti quelli che viaggiano ogni giorno. E che usano l'indice della mano non per ammonire o dire di no, ma per fermare ogni volta quel mappamondo impazzito che hanno dentro. E che colora di verde e azzurro la loro anima.

lunedì 25 luglio 2011

Profumo.

L'olfatto è la macchina del tempo dell'uomo. O almeno, così è per me. Credo infatti che ogni ricordo sia imprigionato in una nuvola di profumo che, una volta assaporato, anche molto tempo dopo la prima volta che l'hai avvertito e incamerato, scatena quel ricordo nei cunicoli della tua mente e lo rende vivo, reale, istantaneo. E' vero che chi vive di ricordi non vive nel presente, ma è anche vero che sono proprio i ricordi a darci la spinta per affrontare la quotidianità, ogni qual volta, di solito per paura del domani, sostiamo titubanti sul bordo della giornata e facciamo il giro largo del cratere invece di buttarci nel vuoto, dove ci stanno aspettando tutti gli altri, i quali chiamano a gran voce il nostro nome. E noi facciamo di "no" col dito, visibilmente imbarazzati, come quando rifiutiamo un invito a ballare durante una festa o di metterci in posa per una foto. Ecco, è a quel punto che il passato, sotto forma di ricordi (anche perché non esistono altre forme di passato, se ci pensate bene), come un'enorme mano, ci spinge giù, in quel vuoto che poi tanto vuoto non è. E non smetteremo mai di ringraziare questo gesto che, a prima vista, ci è apparso vigliacco e subdolo.

E dunque, i ricordi che si manifestano attraverso l'olfatto. In effetti, altri sensi si presterebbero a questo fine, su tutti la vista. E perché no, anche il gusto. Eppure, per me, l'olfatto non ha rivali. Un profumo, un odore, condensano in una nube vaporosa momenti, gesti, sguardi, emozioni e sentimenti. E li risvegliano per mezzo, appunto, dell'olfatto, del naso; di una parte del corpo, cioè, di solito considerata solo per l'aspetto estetico e oggetto di rifacimenti artificiali fini a se stessi e utili solo a non ridere di sè allo specchio. Qui, però, si parla di profumi, quelli che, una volta inspirati, arrivano nei polmoni e da lì vanno a nutrire direttamente l'anima, che si gonfia a dismisura e causa nel corpo quel brivido inspiegabile che ognuno di noi avverte quando sente un profumo particolare. Non è colpa del freddo, né di un prurito al naso: è semplicemente l'anima che vuole uscire dal corpo per esprimere al mondo il suo stato. Uno stato d'animo, appunto.

Per questo sono legato a particolari profumi, che mi sottopongono, ogni volta che li avverto, a strani deja vu di emozioni. Ad esempio, quando sento l'odore di erba tagliata da poco, mi tornano in mente le partite a calcio giocate da bambino in un campetto a casa di un amico fraterno, d'estate, con due giare a mò di pali della porta e l'albero di pere a bordo campo, che alla prima pallonata produceva un raccolto degno di nota. L'albero c'è ancora e, quando io e questo amico, ora che siamo cresciuti, ci affacciamo dal balcone che dà su questo campetto in miniatura, l'albero ci guarda con terrore, come una volta. Senza sapere che, ormai, giochiamo quelle partite solo con la memoria, sbucciandoci ugualmente le ginocchia. Ed è forse per questo che, ogni tanto, ci scende una lacrima sulle guance.

Oppure penso al profumo della legna che arde nel camino, che mi ricorda le cene di Natale a casa di mia nonna, quando tutti, dopo aver mangiato, giocavamo a tombola in attesa della mezzanotte per aprire i regali. Un tavolo enorme e davanti un camino, che riscaldava l'ambiente e i cuori. Ogni tanto vorrei essere quel camino, per accendermi e rivedere impressa nelle fiamme quell'immagine felice che sicuramente avrà memorizzato meglio di me. Un'immagine fatta di gente in attesa di un numero estratto da un sacchetto azzurro di panno. Una persona sorridente per ogni numero. E la consapevolezza dell'irripetibilità di quegli istanti, poiché alcuni numeri non ci sono più.

O ancora, il profumo della vestaglia indossata d'inverno da mia madre, quando mi rimboccava le coperte. Questo non so proprio descriverlo, mi viene in mente solo la parola "candore". Eppure mi addormentavo subito, dopo quei gesti collaudati, accompagnati da quell'odore rassicurante. Io che, tutt'ora, anche d'estate, cerco sempre con le gambe e con i piedi qualcosa che mi copra per il sonno. O forse, sto cercando in realtà qualcuno che, ancora oggi, lo faccia per me.

E perché no, anche i profumi della gente. Io ricollego un profumo al suo "portatore", diciamo così. Avverto la sua presenza o, comunque, sentendo quel profumo in giro, mi ricordo subito di quella persona. E non faccio riferimento solo ai profumi artificiali, ma anche e soprattutto a quelli umani, che sprigionano dalla carne o dai capelli. E che si imprimono sui letti, sui divani, sulle cose di ogni giorno. Dando prova del nostro esistere, del nostro respirare, ogni attimo, ogni vita. Spruzzati nell'aria ogni volta che i polmoni si sgonfiano e buttano fuori l'anidride carbonica.

La lista è davvero lunga, ma credo che con questi esempi abbia reso l'idea. E adesso, andando a letto, anche tutti i sensi, come me, andranno a dormire. Tutti, tranne uno: l'olfatto. Perché il naso serve a respirare, anche di notte. E a cogliere gli odori che popoleranno i miei sogni. Per farmi rivivere quei momenti, non importa se ciò avviene mentre sto dormendo. D'altronde, un ricordo si lega al passato e perciò, per definizione, spezza il filo logico del tempo e delle giornate. E con esso, quello della realtà e del sogno, dell'essere e dell'immaginazione. Creando un istante in cui tutto nasce e tutto muore.

Come quando ricordi un profumo. Come quando profumi un ricordo.

giovedì 21 luglio 2011

Anatomia del dolore.

Il dolore non esiste. Esiste solo una diversa forma di felicità. Quella data dalla consapevolezza della realtà, dal dissiparsi dei dubbi, dalla genuina freschezza di poche parole e dalla maturità che non credevi di possedere e che si manifesta quando meno te l'aspetti. Forse chi ha inventato il dolore non sapeva che esso è una sensazione passeggera, destinata a morire in un tempo direttamente proporzionale alla quantità di disincanto che ognuno ha.

Il dolore è un vetro rotto. Fa un fracasso assurdo, forse porta pure sfortuna, ma poi bastano una scopa e una paletta per raccogliere i cocci e tutto finisce lì. Ogni tanto potrà capitarti di calpestare coi piedi nudi una scheggia di vetro sfuggita alla pulizia dell'anima che hai fatto qualche giorno prima, ma anche in quel caso saranno sufficienti un pò di cotone e di acqua ossigenata per chiudere la ferita. E con essa l'intero discorso.

Il dolore è un libro di cui non potrai mai leggere la fine. A meno che non ti renda conto che esistono miriadi di altri libri che aspettano solo te e che sono pronti ad essere letti fino all'ultima pagina. Eppure non dimenticherai mai quel libro. E continuerai a consigliarlo agli amici.

Il dolore è un fantasma. Nessuno gli crede, ma è opportuno stargli comunque lontano. Anche perché basta un lenzuolo bianco con due buchi per gli occhi a riportarlo in vita. E dunque, meglio usare le lenzuola solo per coprirsi la notte. E difendersi così dai mostri dell'immaginazione, tanto più temibili quanto inventati.

Il dolore è un vento cupo e impetuoso. Che però diventa pure divertente se in mano tieni una girandola colorata. Come con una torcia in una miniera inesplorata, con una girandola d'arcobaleno puoi sconfiggere qualsiasi tempesta.

Il dolore è credere che tutto sia perduto. Ma con una mappa si ritrova ogni cosa. Basta desiderarlo e allora la mappa si materializzerà nelle tue mani, con le ics che indicano i tesori nascosti e una nave pronta a salpare alla loro ricerca.

Il dolore, infine, è vedere un paio di ali intente a volare. E non potere fare nulla per farle volare più in alto. Eppure continuerai a volere bene a quelle ali, anche se non sono le tue, perché ce l'hai tatuate sul cuore. E, come tutti sanno, un tatuaggio non si può lavare via con un colpo di spugna. Al massimo lo si può bruciare col laser, lasciando comunque una cicatrice che, simbolo di dolore per eccellenza, per te significherà tutto l'opposto. Ossia l'aver dedicato per sempre un angolo del tuo campo della felicità ad una persona.

E in quell'angolo, stai pur certo, cresceranno i fiori più belli. Tulipani rossi che affonderanno le radici nel tuo cuore, nutrendosi e colorandosi così del tuo sangue. Che dunque uscirà fuori dal tuo corpo, ma non per una ferita e, quindi, non per dolore. D'altronde, si è detto, il dolore non esiste.

mercoledì 20 luglio 2011

Pioggia d'estate.

Adoro la pioggia d'estate. Perché arriva all'improvviso, con una forza e una potenza tali da rompere l'incanto del sole. E va via quasi subito, assorbita dalla terra secca e assetata e ricondotta su, sopra le nuvole, da quel potente mago con i raggi dorati che per un attimo si era lasciato sopraffare, ma che poi ha riportato tutto alla normalità con un semplice tocco di bacchetta, scusandosi per l'inconveniente.

Adoro la pioggia d'estate. Perché, appunto, è temporanea, veloce e per questo ti riporta alla realtà, seppur bruscamente, ricollocandoti sui binari del tempo dai quali hai volontariamente deragliato, cosicché ti possa rendere conto che giorno è, per non soffrire troppo quando l'estate sarà finita e risvegliarti da un sogno bellissimo con un misero pizzicotto. La pioggia estiva è la sveglia dell'orologio dell'estate che avevi dimenticato di aver puntato.

Adoro la pioggia d'estate. Perché profuma in un modo inconfondibile. Non è un profumo che si sente anche d'inverno. Anzi, lo si avverte solo nei mesi estivi. E' come se la pioggia, ogni volta, riesca a risvegliare antiche essenze nascoste nella terra e lì conficcate dall'afa quotidiana, che si sprigionano non appena l'ultima goccia di pioggia è caduta ed è stata assorbita. E' un odore indescrivibile, che chiunque ricollega subito a un acquazzone appena passato. La cui esistenza viene così accertata oltre ogni dubbio, senza doversi affidare alla vista di eventuali pozzanghere restie ad evaporare.

Adoro la pioggia d'estate. Perché puoi uscire comunque e lasciarti avvolgere da quell'acqua fresca senza avvertire la necessità di ripararti con l'ombrello. Perché l'aria calda, dopo, ti asciugherà subito e tutto sarà finito. Una sorta di rapida doccia tra una sudata e l'altra. Non puoi ammalarti se ti bagni con una pioggia estiva, tutt'al più puoi impazzire un attimo e ritrovarti a cantare "I'm singing in the rain" per la strada, utilizzando l'ombrello solo per la coreografia. E ti spieghi tante cose, a partire dal motivo per cui, quando eri piccolo, tua madre non si arrabbiava più di tanto se ti bagnavi per un acquazzone estivo e, invece di asciugarti subito e cambiarti la maglietta zuppa, ti piazzava al sole che intanto aveva fatto capolino e attendeva che quest'ultimo facesse il suo dovere.

Adoro la pioggia d'estate. Perché puoi fare comunque il bagno a mare. E provare una sensazione unica. Immergerti nell'acqua salata fino alla vita mentre l'acqua dolce ti si posa sulle spalle come un mantello. E stare lì, immobile, in piedi sulla sabbia mista a pietre che sta sotto e che poi diventa bagnasciuga. E sentire. Il rumore della pioggia che si tuffa nel mare con ogni sua goccia, il rumore delle nuvole che brontolano, gelose della loro acqua che stanno regalando al mare, e il rumore della tua anima bagnata, che forse piange o forse ride, ma che di certo ti farà reclinare la testa all'indietro per ricevere quell'acqua sul viso e aprire le braccia verso il cielo per ringraziarlo. E per consolarlo, perché non sa quello che si perde. Anzi, probabilmente lo sa.

E per questo, mischiando le lacrime con la pioggia, senza farsi notare, a un certo punto il cielo inizierà a piangere.

lunedì 18 luglio 2011

Buonanotte.

Buonanotte: una parola semplice, anche se composta. Detta sottovoce, mai con toni accesi. Perché chiude una giornata, perché il più delle volte sottintende tanti significati, perché funge da inchino rispettoso alla notte che avvolgerà il tuo sonno. Perché è un modo di celebrarla, la notte. E infatti, spesso, si dice semplicemente "notte", quasi per annunciarla, per confermarne la presenza agli scettici, per ricalcarne il nero con la voce. Che appunto è flebile, per non rischiare di uscire dai contorni del cielo e sbavare di inchiostro quella volta perfetta. Dove anche le stelle, con il loro stridente biancore, si sentono fuori posto e si fanno piccole piccole.

E' un suono d'amore, molto più vero delle frasi comuni degli innamorati da storia a lieto fine. Detta alla persona giusta, a quella che reputi giusta, al momento in cui scende dalla macchina, quando hai già capito di aver perso l'occasione per parlarle, che ormai è troppo tardi. Allora, in un impeto di coraggio, in virtù di un istinto ridicolo tipico di quegli attimi, le sussurri quella parola: "buonanotte". Per godere ancora per un istante della sua attenzione, perché lei si girerà e dirà a sua volta "buonanotte". E anche se la sua sarà una frase più di cortesia che di altro, comunque qualcosa accadrà. Due bocche che dicono la stessa cosa, due respiri che si fondono perché hanno la stessa forma. Come un bacio, né più né meno.

Ecco, dirsi "buonanotte" è come darsi un bacio. Tu, lei, un set improvvisato, un cono di luce che proviene dalla luna e che illumina solo voi, una sceneggiatura perfetta, nessuno intorno, silenzio e profumo d'estate e una ripresa di profilo che coglie l'intera scena. Non si sente nemmeno il rumore del ciak, per quella scena che in realtà è venuta benissimo già alla prima ripresa ma che tu ripeteresti all'infinito.

Ma quando ciò non è possibile, ti affacci alla finestra e sussurri "buonanotte" alla luna. Cosicché essa, che in quel momento è davanti a te ma in realtà è dappertutto, possa trasmettere quel messaggio alla persona che ami, quando è lontana. Per abbracciarla mentre va a dormire. Per coprirla col velo fresco della notte mentre si sta addormentando e tenerla per mano nei suoi sogni, dove torna bambina e vuole per forza camminare sul muretto e allora devi fare attenzione a che non cada. Perché altrimenti si sveglierebbe e tu non avresti il tempo di tornare a letto, addormentarti a tua volta e raggiungerla lì, nei suoi sogni, su quel muretto.

Dove è più bello dirsi "buonanotte".

"Buonanotte, questa notte è per te".

venerdì 15 luglio 2011

Siamo tutti uguali.

C'è chi è più alto e chi è più basso, chi veste più elegante e chi come capita, chi è biondo e chi è bruno (i castani come me vengono di solito associati all'una o all'altra categoria, a seconda dell'intensità del castano, mentre i rossi sono troppo rari e quindi non classificabili, come gli albini), chi sa cantare e chi è stonato come una campana, chi sa guardare solo con gli occhi e chi anche col cuore, chi sorride per davvero e chi per finta, chi dorme e non piglia pesci e chi è più fortunato e riesce a pescarli anche mentre dorme, chi alza lo sguardo verso il cielo per superbia e chi lo fa solo per guardare le stelle, chi piange per un nonnulla e chi per pura felicità, chi crede in Dio e chi pure ma lo chiama in altro modo, chi per addormentarsi abbraccia un cuscino e chi rimane sveglio in attesa del sonno, chi crede nel bene e nel male e chi gli va bene e chi gli va male, chi dice di saper amare e chi ama in silenzio senza sapere di amare veramente, chi preferisce stare solo per un pò e chi ha bisogno degli amici proprio perché si sente solo, chi dà del diverso ad un altro e poi ha abitudini tutte sue, chi adora la cioccolata e chi la odora e basta perché fa ingrassare, chi porta gli occhiali perché non ci vede e chi porta gli occhiali per il sole, chi d'inverno aspetta l'estate e chi d'estate rimpiange l'inverno, chi ama gli animali e chi gli animali li ha visti una volta allo zoo, chi sa nuotare e chi ammette di non saperlo fare, chi scatta una foto e chi dipinge, chi fa l'oratore in pubblico ma quando scrive sbaglia le doppie e chi è timido ma sa scrivere, chi è nato per comandare e chi per fòttere, chi sa ancora andare in bicicletta e chi ha dimenticato come si fa, chi parla con la bocca piena e chi si riempie la bocca ma poi in fondo non dice nulla, chi fa castelli di sabbia e chi li fa o di carte o in aria, chi è felice e chi è infelice (ma entrambi sono consapevoli che le parti si invertiranno, prima o poi), chi crede di essere qualcuno e chi non lo è e gli va di lusso così.

Insomma, ognuno è una storia diversa, ognuno è un colore diverso, ognuno è una vita diversa, ognuno è stato un inizio diverso e ognuno sarà una fine diversa. In definitiva, ognuno ha un ruolo diverso nel mondo. Ognuno è ognuno.

Ma basterà guardarsi negli occhi un istante per capire che, in fondo, siamo tutti uguali. Perché è vero che ognuno è ognuno. Ma non bisogna dimenticare che ognuno è vero. E perciò, lo siamo tutti.

mercoledì 13 luglio 2011

Il tempo e una foto.

In ritardo. Non negli appuntamenti di ogni giorno, per i quali, anzi, collezioni ore e ore di solitudini immeritate. Ma in quelli della vita. Quelli in cui devi vestirti elegante e presentarti col mazzo di fiori per la padrona di casa. Puntuale e col sorriso, non importa se falso. Tanto comunque riderai, dopo, alla fine della storia. E lo farai di gusto, felice di aver dato la risposta corretta, avendo sempre saputo, prima di tutti gli altri, che una domanda può cambiarti la vita. Ma che non per questo devi avere paura di rispondere.

Cosa aspettarsi, d'altronde, da chi ha sempre sbagliato momento? E' mai possibile pretendere il rispetto del tempo da chi sbaglia sull'istante? Ovviamente no. Perciò puoi fare solo spallucce, rassegnarti un pò e prendertela con te stesso. Così, tanto per farti un altro pò di male. Poi magari ci sarà pure chi ti rimprovererà perché ti stai mangiando le unghie. Senza sapere che, in realtà, ti stai mangiando le pellicine delle dita, perché le unghie sono finite ormai da tempo.

E poi c'è lei. Che stravolge il rapporto causa - effetto, essendo al tempo stesso causa, effetto e di nuovo causa. Bella come una foto in bianco e nero, coi bambini sulle scale in ordine sparso e i nonni e le nonne seduti su instabili sedie impagliate, che non vogliono cambiare per niente al mondo. I primi appoggiati comunque al bastone, anche se non ne hanno bisogno; le seconde che mostrano le gambe accavallate avvolte in spessi collant, approfittando del fatto che i mariti stanno guardando altrove, ossia verso l'obiettivo. Sono alti tutti uguale, vecchietti e nipotini, nonostante l'età. O forse proprio a causa dell'età, perché dicono che invecchiando si diventa sempre più bambini.

E tutti sorridono. O almeno così ti sembra. Allora avvicini la foto agli occhi, per vederci meglio. E mentre l'inconfondibile profumo della carta delle vecchie fotografie ti riempie i polmoni - un misto tra caffè e frutta secca - ti rendi conto che quei visi, così chiari da lontano, da vicino ti appaiono sfocati. Ma nonostante ciò, concludi per il sorriso. Perché quando ci si fa una foto si sorride sempre. E poi immagini che, dopo lo scatto che stai fissando ormai da minuti, tutti i bambini siano scappati via a giocare, suscitando i rimproveri dei nonni perché era pronto in tavola. E sorridi pure tu. Comprendendo che avevi ragione. Che non si può non sorridere in una foto.

Insomma, nella vita, anche se sbagli il momento, l'ora o il tempo, finirai comunque per sorridere, come quando guardi una vecchia fotografia. Per rassegnazione o per menefreghismo, perché tutto ti scivola addosso o perché sei tu quello che è scivolato, e ridi di te stesso assieme a tutti quelli che hanno assistito alla scena. Come quando da bambino cadevi faccia a terra e appena i tuoi genitori ti rialzavano, nell'incredulità generale dei presenti pronti ad un lungo pianto, inaspettatamente scoppiavi a ridere. E tutti ridevano con te e ti dicevano "bravo" battendo le mani.

Forse, però, non c'è una vera e propria ragione. E sorridi per un motivo oscuro anche a te stesso. Per lo stesso motivo, cioè, per cui il caffè ogni tanto lo prendi con lo zucchero e ogni tanto senza. E se mentre lo bevi ti cade sul libro che stai leggendo, non ti arrabbi ma aspetti che si asciughi, per poi avvicinare il naso al foglio. Per inspirare quel profumo che ti piace tanto. Perché ti ricorda quello di una vecchia fotografia in bianco e nero.

martedì 12 luglio 2011

Di notte.

E'una notte in cui rimani a letto con gli occhi spalancati. Perché solo così riesci a vedere veramente, oltre la realtà. Forse anche il futuro. Ti sembra di capire ogni cosa, tutto diventa così chiaro e limpido, logico e razionale, nella sua semplicità quasi imbarazzante, che davvero non capisci come hai fatto a non accorgertene prima. E' una sorta di consapevolezza assoluta, una luce che illumina la stanza buia. Notte nel mondo là fuori e giorno dentro di te.

Sarà che di notte si è sempre spontanei. Come quando si sta ore e ore a parlare in macchina di fronte al portone di casa sua e non la lasceresti scendere mai. La ascolteresti parlare all'infinito, senza comprendere veramente le sue parole perché troppo impegnato a sentire il suo respiro. A cogliere un rigurgito di anima che le sfugge. Per imprigionarne un pezzetto nella tua, legata ben stretta con un filo dorato, che se mai dovesse slacciarsi la farebbe volare via, in un'esplosione di petali del suo fiore preferito.

Basta una canzone giusta, ascoltata poco prima di tornare. E' la scintilla che fa incendiare gli alberi piantati nella tua mente per non farla franare. Quindi, tutto precipita. Una cascata di sentimenti che non sapevi di possedere. E che si manifestano all'improvviso, come quando ti innamori. Perché se c'è ancora qualcuno capace di emozionarsi per una canzone, allora il mondo può continuare a girare tranquillo. Preoccupandosi al massimo della fissità della luna, senza sapere, in realtà, che essa è per natura incapace di voltafaccia.

E' la sincerità della luna quella che ti coglie in una notte come questa. Mostri solo una parte di te stesso, quella più luminosa e bella, quella della vita. E tieni nascosta l'altra, quella oscura, quella delle paure e dei dubbi. Semplicemente perché, come accade sempre per la luna, anche tu, per un momento, hai solo una faccia. Peccato che la puoi vedere solo tu. Gli altri però coglieranno qualcosa nei tuoi occhi, il mattino dopo. E, involontariamente, in pieno giorno, alzeranno lo sguardo al cielo in cerca della luna.

Poi arriva il sonno. Piano piano la luce che avevi acceso senza interruttore si affievolisce. E tirerai il filo che pende dal cielo per spegnere la luna. Per farla riposare in vista del mattino, quando dovrà gareggiare col sole per un posto nel cielo. Per farsi vedere da chi avrà gli occhi giusti per farlo, perché non tutti coloro che di giorno stanno col naso all'insù sono capaci di ignorare il sole.

Chiudi gli occhi. E con te, lo fa anche la luna. A far luce, stanotte, ci penseranno le stelle.