domenica 21 agosto 2011

La mia città.

Messina è la mia città, su questo non ci piove. E meno male, perché ogni volta che piove magicamente si creano ingorghi dal nulla e la gente alla guida impazzisce. Oppure l'acqua si insinua nei torrenti vuoti sotto le strade e quando li riempie tutti sgorga fuori dall'asfalto, formando simpatiche fontanelle simili a sorgive. E a quel punto il messinese rimpiange la siccità, rivendicando il proprio diritto ad ammirare deserti e a possedere dromedari, data la vicinanza con l'Africa. Senonché, nei periodi più caldi dell'anno, ecco che all'improvviso egli sente il bisogno della pioggia. Così, tanto per scacciare quell'afa terribile.

Insomma, siamo una continua contraddizione. Un paradosso all'infinito. Abbiamo voluto (anzi, rivoluto) il tram per spostarci nel centro cittadino ed evitare le code con la macchina o quelle alle fermate degli autobus, più rari di un cestino della spazzatura sui Colli San Rizzo. E alla fine, dopo anni e anni di lavori (ovviamente in ritardo rispetto alle previsioni), a parte macroscopici errori di progettazione - si pensi all'acqua piovana che ristagna in inspiegabili conche lungo i binari - o stranissime pensiline con la copertura a listelli - che, anziché riparare durante l'attesa, canalizzano la pioggia e il vento sul cervelletto del malcapitato di turno - il percorso del tram è stato deviato dalle vie del centro, perché rischiava di compromettere una processione cittadina che si svolge una (dicasi una!) volta l'anno, ossia la Vara.

Ecco, appunto, prendiamo la Vara, simbolo del paradosso per eccellenza: i fedeli che tirano le corde del carro votivo all'urlo di Viva Maria, per poi bestemmiare durante il tragitto per la fatica e lo sforzo. In un miscuglio di sacro e blasfemo, devoto e profano, tipico delle manifestazioni religiose della nostra isola.

E poi ci sono le macchine ferme in doppia fila davanti a parcheggi vuoti, quasi in segno di rispetto per lo straordinario evento rappresentato da un posto vacante lungo la strada o forse al solo fine di ammirare le strisce blu solitamente celate da ingorde ruote che ne disprezzano la geometria quasi perfetta. Oppure, la spazzatura che gironzola per la città tra l'indifferenza generale, evidenziandosi ancor di più non tanto il problema del fare pulizia, quanto invece quello di mantenere la pulizia stessa. E ciò in quanto il messinese è campione olimpico di lancio del rifiuto dall'auto o dalla finestra, in esecuzione di quella disgustosa usanza tutta nostra per cui il proprio orticello è lindo come il culo di un bambino, mentre le cose comuni sono luride come il bagno di un'area di servizio sulla Sa-Rc. Anche perché, come direbbe un messinese all'esito di una riflessione accurata sul punto, "sono stati gli altri a sporcare e poi c'è gente pagata per pulire le strade".

Per questi motivi, ogni tanto, non la sopporto proprio questa città. Poi, però, vedo il mare. Che, nonostante tutto, continua a circondarci placido, incazzandosi qualche volta, ma comunque difendendoci dalla terra ferma. Ricalcando di blu i contorni della nostra isola, partendo proprio dalla punta più vicina al resto del mondo, ossia da Messina. Che quindi è sempre stata l'inizio del quadro, il primo puntino di colore di quel meraviglioso dipinto che è la Sicilia.

Perché è facile giudicare una tela quando l'artista finisce di dipingerla. Ma è impossibile indovinare da quale punto ha iniziato. Noi messinesi, per il semplice fatto di essere nati in quest'angolo di mondo - cullati fin da piccoli dalle onde del mare, riscaldati e colorati dai generosi raggi del sole, protetti dalle spine dei fichi d'India - la risposta a questa domanda ce l'abbiamo dentro.

E per fortuna, ancora, non ce ne siamo resi conto.







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