domenica 7 marzo 2010

Viaggio.

Adoro viaggiare. Ma non per i soliti luoghi comuni legati al bisogno di evadere, vedere posti nuovi e conoscere diverse culture. No. Piuttosto, per una serie di sensazioni che solo il viaggio riesce a trasmettermi. Ma non il viaggio lungo, ben organizzato e in gruppo. Bensì il viaggio breve, organizzato quanto basta e con al massimo due o tre compagni o, ancor meglio, da solo.
Credo che il luogo che meglio si presta a descrivere questi miei pensieri è la stazione ferroviaria. Un luogo magico, nel suo caos e nella sua meravigliosa dinamicità, che mi ha sempre affascinato. A volte ringrazio i ritardi dei treni, perché mi permettono di rimanere in stazione per un po’. Allora mi scelgo un posto defilato ed osservo. Osservo la gente che va e viene. Giù da un treno e subito tra le braccia di parenti o amici. Oppure di corsa a prendere la coincidenza. O tranquillamente verso casa. O di corsa al bagno. O con calma a mangiare qualcosa. C’è chi cammina con il carrello carico di bagagli. E chi senza neanche una borsetta. Chi si lascia trasportare dalla folla e nel mentre legge un giornale. E chi si abbandona a lunghe conversazioni al cellulare. Chi si attarda con la fidanzata sulla banchina. E chi cerca di andarsene il più presto possibile (anche dalla fidanzata!). Ogni persona è come una goccia di pioggia. Indipendente. Ma insieme alle altre, una volta arrivata a terra, diventa acqua. Che inevitabilmente, senza volerlo, si canalizza verso un tombino. Così ogni persona, vuoi o non vuoi, nella sua solitudine necessaria, dovrà convogliare o verso l’entrata o verso l’uscita della stazione. Riesco a scorgere, lì fermo nella mia postazione da vedetta, tutti i pensieri della gente sospesi a mezz’aria, il più delle volte connessi allo scopo del viaggio effettuato o da effettuare. Per facilitarmi il compito, dò loro una forma. Se ognuno di essi fosse un coriandolo, mi immagino la stazione come una gigantesca festa di carnevale. Oppure, se ognuno di essi fosse una stella, mi ritrovo all’improvviso sospeso nel bel mezzo di una galassia.
Quando entro in stazione e mi fermo sulla banchina in attesa del treno, avverto sempre un brivido lungo la schiena. Non so perché. È lo stesso brivido che provavo quando da bambino, giocando a nascondino, riuscivo a nascondermi in un posto dove ero sicuro che non mi trovasse nessuno. E lì attendevo la fine del gioco, godendomi i rumori e le urla dei miei amici che, prima o poi, ero sicuro, sarebbero usciti allo scoperto. È una sensazione strana. Un misto di sicurezza e ansia, felicità e malinconia. Ma intanto rimango lì. Un tutt’uno col mio bagaglio a tracolla. Ogni cosa è al posto giusto. Anche me stesso. Come mi suggerisce il titolo di un libro che ho letto tempo fa, è una “perfezione provvisoria”. Il ritardo del treno, il nonno che tiene stretta la mano del nipotino, lo studente che ascolta la musica, gli occhi di due ragazzi che sono rivolti verso il punto da cui arriverà il treno, ma che in realtà guardano al futuro, il barbone alloggiato sulla panchina, il vecchio capotreno, l’inserviente che attraversa a piedi i binari, anche se è vietato. Tutto è perfetto. Per un attimo. Quanto basta.
Se è vero che la vita è un viaggio, allora chi non ama l’idea del viaggio non vive. Per quanto mi riguarda, mi basterà sentire il brivido di cui ho parlato prima, ogni volta che sarò in procinto di viaggiare, per sentirmi vivo. E allora, in piedi sulla banchina ferroviaria, col freddo o col sole, con la pioggia o col vento, comunque vada, mi scapperà un sorriso. Impercettibile. Involontario. Stupido. Insensato. Ma sarà il mio cenno d’intesa alla vita. Il mio occhiolino al tempo che passa. E la mia freccia per superarlo, cercando di andare più veloce di lui. Forse mi sto sbagliando. Forse, in realtà, sto solo perdendolo, il tempo. Ma ne sarà comunque valsa la pena.

domenica 21 febbraio 2010

L'Italia di Sanremo

Credo che valutare il momento storico del proprio Paese, al giorno d’oggi, non sia un compito poi così difficile. Basta infatti analizzare qualsiasi fenomeno sociale per arrivare ad un risultato soddisfacente, senza bisogno di addentrarsi in complicate riflessioni politiche o culturali.. ma per il semplice fatto che manca la materia prima.
Ecco perché ho deciso di fare ciò, dopo aver visto il Festival di Sanremo, fenomeno sociale per eccellenza. Gli esiti e lo sviluppo dell’intera manifestazione mi hanno lasciato perplesso, per usare un eufemismo.
Cito alcuni episodi.
Riammettere in gara, attraverso il televoto, 2 di 5 canzoni escluse (giustamente) dalla giuria tecnica dell’orchestra, ha costituito, a mio parere, una vera e propria “offesa” al concetto di musica, che deve essere la protagonista (se di livello) di un Festival della canzone italiana. Se poi penso che le 2 canzoni erano interpretate (e in parte scritte) dall’ennesimo concorrente di una delle tante trasmissioni spazzatura della nostra amata tv e da un trio composto da un noto cantante biscazziere, un reale esiliato e tornato a fare il ballerino in Italia e un povero tenore vittima della situazione, mi viene il freddo. Che diventa gelo quando le 2 canzoni arrivano in finale ed una addirittura vince, a scapito di altre canzoni ed altri artisti di livello sicuramente superiore (ma stroncati dal suddetto televoto). Quando dico che il diritto al voto è il vero nemico della democrazia, non credo di avere poi così tanto torto. Soprattutto perché penso che i “tele votanti” sono anche coloro che votano i politici italiani. Nel mezzo, un unico grande strumento di propaganda, che narcotizza e appiattisce la collettività (o comunque gran parte di essa): la televisione, con i suoi programmi da “populino” che imperversano con uno share sempre alle stelle. Insomma, il problema “italiano” è un problema palesemente culturale, nel senso più puro del termine.
Ma non c’è solo questo.
Emblema dell’Italia di oggi è anche stata l’apparizione del ct della nazionale italiana di calcio sul palco dell’Ariston in qualità di accompagnatore (pensa un po’!) del suddetto trio. Contravvenendo al regolamento del Festival, con un atteggiamento squallido (e a tratti infame), ha iniziato a sproloquiare prima dell’esibizione musicale, citando gli italiani all’estero e paragonandone le sorti al reale di cui sopra (sic!) e ricordando il ct della nazionale di ciclismo, scomparso qualche giorno prima in un incidente, al solo fine di “salvare” le sorti di una canzonetta. Al termine della stessa, eccolo riapparire sul palco, abbracciando gli interpreti stile “padrino” (ma un “padrino” fatto male!). E il direttore artistico del Festival, invece di condannare e sanzionare questa evidente violazione, l’ha giustificata in quanto “si trattava del ct della nazionale italiana di calcio: non me la sono sentita di fermare un'icona italiana”. Questo perché la legge è uguale per tutti, ma alcuni sono più uguali degli altri. E sto parlando di un episodio insignificante, cui si applica però un principio, tutto italiano, che ritroviamo anche su larga scala ed in circostanze ben più importanti e delicate (un indizio: uomini politici e giudizi pendenti. Cosa o chi vi ricorda?).
E concludo con altri 2 episodi, entrambi tratti dall’ultima serata del Festival.
Un noto giornalista e conduttore televisivo irrompe sul palco, intervista tre operai di Termini Imerese e poi dà la parola, sul tema, a 2 politici presenti in sala. Non si capisce perché l’abbia fatto: certo non si può risolvere il problema della disoccupazione con un intervento in diretta al Festival di Sanremo! Ma questo il buon vecchio giornalista lo sa. Sa anche però che coinvolgere 2 politici di opposte fazioni crea sempre scompiglio. E lo scompiglio crea share. Come insegnano le trasmissioni-ciarpame di cui sopra. E se anche gli fosse sfuggito qualche volta questo concetto, ha la fortuna di poter sempre contare sull’”aiuto da casa” che gli ricorda come si fa, essendo stata la moglie ad inventare questo triste e fangoso gioco (o forse “giogo”?) televisivo.
Evito di approfondire il tema dell’intervento di questi c.d. “uomini politici”, limitandomi a ricordare (per verificare la mia memoria e lucidità mentale, non per altro!) l’”ominicchio” di Sinistra subissato dai fischi e subito rintanatosi nella sua comoda e sicura poltrona della platea ed il “pagliaccio” di Destra, applaudito ed acclamato a gran voce e circondato dai suoi accoliti che placavano le (poche) contestazioni con gestualità da regime (peccato che avessero dimenticato i manganelli nel soprabito appeso al guardaroba dell’Ariston!).
Infine, la breve apparizione della banda dell’Arma dei Carabinieri. Agghindati come alberi di Natale e luccicanti più dei loro strumenti, eseguono il motivetto di Star Wars (che c’entra?) e la “Fedelissima”, diretti da un fin troppo “aggraziato” Colonnello, con il suo vistoso copricapo a forma di vulcano e con tanto di lunga spada d’ordinanza alla cintola. Alla loro uscita dal teatro, passando per la platea, tutti in piedi ad applaudire.
Questa è l’Italia. Bisogna farsi una ragione. O forse un esame di coscienza.