giovedì 27 dicembre 2012

Disordinato come un giocattolo.

Mi trovavo in un negozio di giocattoli per comprare un calendario dell'avvento. In ricordo dei tempi in cui le attese non equivalevano ad ansie ma a cioccolatini nascosti nemmeno tanto bene. Al che mi sono accorto che in quella piccola bottega, cadente come i due vecchietti proprietari, regnava il caos più totale. Giocattoli dappertutto, senza un ordine preciso, ammonticchiati alla bell'e meglio, introvabili senza una guida del posto.

E allora ho pensato che alcune cose appaiono in disordine agli occhi dei più, ma, in realtà, sono più ordinate di un'enciclopedia su uno scaffale. O meglio, certi oggetti acquistano la propria identità solo se sparpagliati nel mondo, in modo tale da essere trovati da chi ha occhi diversi da tutti gli altri, come i bambini, appunto. Da chi, cioè, non si cura del disordine ma è ancora capace di capire quando è l'eccessivo ordine a dover fare paura. 

E dunque un giocattolo deve stare in disordine, riempire una stanza, esser gettato con tutti gli altri dalla cesta nel quale è stato erroneamente stipato e dentro la quale è sparito, per poter fare rumore a contatto col pavimento ed esplodere nei suoi colori matti. 

In quel negozio, ho quindi capito che il caos che avevo creduto di vedere era piuttosto la maschera di ordinanza di un disordine congenito e primordiale dei giocattoli. Che non poteva essere altrimenti, sennò il negozio sarebbe stato vuoto. Quasi una rassegnazione alle regole della natura, un pò come quella dei due giocattolai, che con le loro dita stanche incartavano quei piccoli oggetti gioiosi, con una cura ed un'attenzione che sarebbero state poi vanificate da impazienti manine, curiose e laceranti, intente solo a trovare il regalo e incapaci di apprezzarne l'involucro.

Ecco, se fossimo ancora in grado di innamorarci della purezza del disordine, dell'inutilità delle cose perfette, del piacere di perderci in cunicoli di cose pensando solo a trovarle, anziché a capirne la collocazione, forse riusciremmo ad accorgerci che su questa terra rotoliamo tutti allo stesso modo, perché è bello seguirne le rotondità, lasciandosi scivolare.

E' stato dunque in quel negozio di giocattoli che ho capito perché sorrido quando lasci la casa in disordine. E perché, quando torno, ignoro tutto il resto e mi concentro nei tuoi occhi. 

Per comprendere il punto di vista delle cose belle. 


lunedì 3 settembre 2012

Un dondolo.


Un dondolo va avanti e indietro. Riceve una scossa inaspettata e comincia a muoversi, cercando di resistere alla tentazione di fermarsi. Accoglie chi gli dà la vita, perché è bello ricambiare un favore di questa portata con morbidi cuscini.

Un dondolo non si muove di continuo. Non può, per lo stesso motivo per cui nessuno può restarci seduto sopra per sempre. Ecco perché il nostro dondolo non è come tutti gli altri. Lui ha una vita davanti, la nostra. Che è una, appunto. E' una parola al singolare, la vita, che però sottintende il plurale. Misteri della lingua italiana. Che un dondolo può svelare in tutta la loro semplicità.

E' un vortice, quel dondolo. Come una giostra, che va veloce ma non ti impedisce di vedere i cavallucci, facendoti sorprendere come se fosse la prima volta che assisti a quella meraviglia, con in mano lo zucchero filato e sulla spalla una treccia di capelli del colore del grano.

Un dondolo non conosce il tempo. Chi se ne importa dei giorni e dei minuti, lui dice, se poi si dimenticano tutti gli orologi con un semplice bacio? La domanda che contiene la risposta. Che sta scritta sulle tue labbra, dunque, pronta ad essere letta o pronunciata, a piacimento.

Un dondolo ha un movimento lento e silenzioso che contiene una forza, pronta a sprigionarsi col solo contatto con la tua pelle. Perché profuma e sa di nocciole e mandorle. Come i dolci.

Quel dondolo ti culla, quando non riesci a dormire. Canta sottovoce la ninna nanna che ti accompagna nei sogni. E che ti porta a me, quando non posso rimboccarti le coperte perché sono lontano.

Ogni giorno salgo su quel dondolo e ti abbraccio come se ancora non gli avessimo mai dato il via. 

Perché ogni giorno con te è come una sera d'estate. 



lunedì 20 agosto 2012

Quella canzone per te.

Più ci penso e più mi convinco che quella canzone non sia stata mai cantata veramente. E che, piuttosto, sia stata eseguita solo per te. Troppo diversa dal resto del concerto, troppo lontana da quei ritmi incalzanti e da quella atmosfera particolare che via via si era andata creando. Un tuffo nel passato, in quei ricordi che solo tu puoi mettere in movimento ascoltando quelle note e quelle parole.

Tutto si è fermato, io credo. Il tempo ha arrestato le proprie lancette impazzite per vederti sognare ad occhi aperti. Con il malcelato scopo, in origine segreto, di sfruttare quel momento per capire, mettendoli a confronto, se erano i tuoi occhi ad avere il colore del mare o viceversa.

Nessuno si muoveva, posso giurarlo. Nemmeno io, che ti guardavo credendo di abbracciarti. Ma, in realtà, non si poteva interrompere quel piccolo tempo dedicato a te. L'ho scoperto solo dopo, quando ti sei girata verso di me e mi hai fatto capire con un impercettibile gesto del viso che non te l'aspettavi, che quella canzone per te era una sorpresa, dunque una cosa meravigliosa.

Col sorriso da bambina, stupita per qualcosa che non credevi potesse suscitarti così tante emozioni. Ti sei messa lì, seduta, con i gomiti sulle ginocchia e i palmi delle mani sotto il mento, per tenere in alto il viso e non rischiare di cambiare posizione e, con essa, anche il sogno che stavi facendo.

Senza neppure riuscire a cantare, anche se conoscevi tutte le parole a memoria, con le pause al momento giusto. Non uscivano suoni dalla tua bocca. Solo musica. Magicamente, come accade nei sogni, un'altra voce è venuta fuori da te, riposta a lungo in un posto dal quale, proprio quella sera, ha deciso di venire fuori. Solo tu, del resto, potevi interagire col mondo in quel momento.

A ben pensarci, dunque, hai fatto parte del mondo, come unica protagonista. La più bella che il mondo abbia mai avuto e alla quale abbia dedicato del tempo in esclusiva. Per mezzo di una semplice canzone.

Poi, tutto è finito con una stella cadente. Il segno che tutto poteva ricominciare. O, forse, la firma nel cielo di quel piccolo capolavoro musicale che sei tu.

mercoledì 18 luglio 2012

Cogito interrotto.


Ogni sogno, sul più bello, viene interrotto. Da una sveglia, da un rumore insolito che arriva da fuori, da qualcuno che decide di fermare bruscamente quel momento così profondo, come il sonno che lo genera, così, tanto per gioco.

E in fondo un sogno non è altro che un pensiero senza freni che ne rallentavano la corsa, privo di tappo che ne bloccava le bollicine, slegato dai lacci che lo stringevano, svestito dagli abiti che lo facevano sudare.

È incredibile come gran parte delle persone si svegli dal sonno con l’amaro in bocca. Ma non per quello che è stato, bensì per quello che avrebbe potuto essere. In un altro mondo, in un altro paesaggio, entrambi costruiti dalla mente di ciascuno con una dose di fantasia insospettabile, soprattutto per chi l’ha appena scatenata.

Spazzatura o capolavoro di un estro creativo che siano, i sogni, quanto più aumentano di durata, tanto più si avvicinano alla realtà, sfiorandola delicatamente con un dito, allo stesso modo di chi tocca un bocciolo, con la paura di distruggerlo, ma, allo stesso tempo, con una voglia matta di sentirlo sotto la pelle.

Però, proprio quando il dito sta per toccare il bocciolo, quando il vero e il falso stanno per unirsi, in un incesto della verità con la sorella gemella della menzogna, ecco che tutto si frantuma, perché qualcosa, dall’esterno, impedisce questa commistione e lascia dissolvere il sogno. Che sparisce all’improvviso, si ritira nei meandri dell’oscurità, come una bestia feroce della notte scacciata nelle tenebre da un lampo di fuoco.

Il sogno aspetterà la prossima notte, il sonno che verrà, per provarci ancora a sostituirsi alla realtà del mondo, per far esplodere, finalmente, la sua bellezza immaginaria, ma mai così tangibile, come appare a chiunque la riesca a vedere, anche per pochi istanti.

Perché stare al gioco, a questo gioco, cui tutti partecipano ad armi pari, all’unica condizione che si chiudano gli occhi, per dimenticare ciò che c’è intorno, è in realtà l’ultimo barlume di umanità che può davvero dirsi tale. Perché un sogno è puro, vero, semplice e complesso allo stesso tempo. E, soprattutto, è interamente tuo.

Un sogno interrotto è come un bambino che nasce senza piangere. 

domenica 24 giugno 2012

Proverbi da rifare.

Ciascuno di noi nasce tondo e muore quadrato, a dispetto del famoso proverbio che, negando questa possibilità, fornirebbe la prova provata del fatto che è impossibile cambiare e che, prima o poi, la vera natura di ognuno viene fuori, senza che nemmeno l'età possa garantire quella  mutazione genetica della personalità da tutti auspicata e poi, in gran segreto, fortemente temuta.

Ebbene, con tutta evidenza, il detto in questione falla. Ogni essere umano, infatti, nasce in e da un tondo, sviluppandosi al suo interno e, per questo, contribuendo alla sua rotondità e, poi, uscendone fuori con impeto e lacrime, per lo sforzo o per la paura di quello che lo aspetterà.

Dopo, ogni essere umano (o quasi) conclude questa esperienza terrena chiuso in un rettangolo di legno, che in effetti altro non è che un quadrato allungato, adattato all'occorrenza. E messo sottoterra. Anche lì partono le lacrime, a dir la verità, ma non sono le sue.

E se proprio devo dirla tutta, il famoso tondo di cui sopra, ogni giorno della sua vita, va alla ricerca di un quadrato che gli possa fare da tetto, e, una volta trovatolo, ci si chiude dentro, per viverci, per lavorare, per mangiare, per fare i propri bisogni, per sentirsi al sicuro.

Insomma, il cerchio, nato per spaccare il mondo, rotolando al suo interno e cercando di imitarlo in tutto e per tutto (quantomeno per la forma), finisce per diventare quadrato, trasformando i suoi fantastici contorni tondi, non facilmente misurabili (se non da chi conosce il misterioso pi greco), in rigide linee rette, più idonee ad uniformarsi alla realtà, perché più facilmente inquadrabili, appunto, ma dagli altri.

Più propriamente, dunque, io direi che ciascuno di noi è un cerchio inscritto in un quadrato, che muore dalla voglia di diventare ciò che lo circonda (il quadrato, appunto), e in effetti ci riesce, abbandonando per sempre i sogni e i desideri che ha urlato quando è venuto fuori da quell'altro tondo là, in un tempo ormai troppo lontano. 

Pertanto, se proprio bisogna trovare un proverbio che spieghi alla gente come sia molto difficile cambiare se stessi, specificando, però, che, almeno dal punto di vista geometrico, come detto, si cambia eccome, io utilizzerei la versione dialettale "cù nasci tunnu 'un pò mòriri pisci spada" ("chi nasce tonno non può morire pesce spada") o, meglio ancora, "giralo comu voi, sempri cucùzza è" ("guardala da tutte le angolazioni che vuoi, sempre di zucchina si tratta").





lunedì 30 aprile 2012

Monologhi da tassista.

Un tassista fa monologhi con gli altri. O dialoghi con se stesso, che è un pò la stessa cosa. Prova a sconfiggere la solitudine con l'arma delle parole, visto che è davvero complicato usare a tal fine le persone trasportate, con un abbraccio, ad esempio, o anche solo con una carezza, visti i tempi davvero ristretti nei quali instaurare un eventuale rapporto umano.

E dunque inizia a parlare, di solito fornendo informazioni generiche che, proprio per la loro genericità, difficilmente costituiscono l'argomento di discussione preferito dall'uomo medio, il quale, francamente, preferisce godersi la città in silenzio, dal finestrino posteriore di quel taxi, come fosse un divo del cinema trasportato dall'autista che non avrà mai, piuttosto che imbarcarsi in disquisizioni più o meno complesse sui fatti di un mondo che conosce fin troppo bene e di cui ha le scatole piene.

Il tempo, per dirne una. Forse il più classico dei modi per iniziare un dialogo, anche se, sul punto, va detto che la passione meteorologica ha di recente conquistato un pò tutti, grandi e piccini. E i tassisti, depositari del termometro universale, rimangono spiazzati dinanzi al passeggero adolescente, il quale, non solo ribadisce, tradendo anche un filo di nostalgia, la totale sparizione delle mezze stagioni, ma conosce anche, con esattezza, la successione cronologica degli anticicloni imminenti o già passati, con tanto di nomi di battesimo, solitamente molto ridicoli.

Ma il tempo non è il solo tormentone da tassista. Il traffico, per esempio, è un altro argomento quotato. Ma, su di esso, è facilissimo trovare un passeggero competente, anche minorenne, che non si sorprende affatto dell'ingorgo di ore e ore sulle strade del centro, che lui ogni giorno percorre con la sua nuova e fiammante macchina cinquantina.

E poi il calcio, sul quale anche esponenti del sesso femminile sanno ormai discutere con perizia e con una dovizia di particolari degne del miglior commentatore sportivo o del più consumato frequentatore dei bar del lunedì. Con tanto di indagine psicologica sulla sudditanza arbitrale e ricognizione sociopolitica sull'opportunità di rendere obbligatoria la tessera del tifoso.

O ancora, i viaggi. Anche lì, non c'è una persona che non abbia mai visto, anche solo in foto, luoghi esotici o mete originali, al giorno d'oggi, almeno una volta nella propria vita. Ed ecco che le fantasie geografiche del tassista si scontrano con la cruda realtà di chi quei posti li ha già visti dal vivo o, come più spesso accade, per interposta persona. E state sicuri che la maggior parte di essi sono risultati davvero deludenti.

In tutti questi casi, come in molti altri, insomma, l'appello disperato del tassista, fatto di parole invitanti e questioni comuni, si perde nel nulla, muore appena nato, si dissolve in una nuvola di indifferenza e di immediati silenzi e va a schiantarsi sul lunotto dell'auto, sotto forma di strisce orizzontali, alternativamente chiare e scure, che simboleggiano la piattezza e l'imbarazzo di un momento che è meglio accantonare subito.

Poi non vi sorprendete se il tassista sbaglia puntualmente strada e, facendo il giro largo, una volta a destinazione, vi comunica una cifra spropositata da pagare per quel viaggio. Se non avete colto la sua richiesta d'aiuto, beh, quantomeno dovrete risarcirgli ogni singola parola che ha sprecato con voi.

lunedì 23 aprile 2012

Anche i cuochi si fanno il bidet.

Tutti aspirano alla fiducia degli altri. Ma pochi, veramente pochi, ispirano fiducia a loro volta. Per colpa di questo piccolo cambio di vocale, a ben guardare, il mondo è un ingranaggio che, nell'attesa di qualcuno che possa oliarlo per bene, fa una fatica assurda a girare attorno al proprio asse, muovendo e intersecando fra loro la terra e l'acqua che, a contatto l'una con l'altra, stridono, producendo un frastuono insopportabile. Troppo facile pretendere dagli altri, troppo difficile accontentare chi pretende nei propri confronti. E così via, come tanti ricci ingolfati in una gabbia, che provano a strofinarsi reciprocamente in cerca di affetto, ma finiscono puntualmente col farsi male coi loro aculei.

E allora ogni persona va per la propria strada, rinunciando all'idea che qualcun altro possa essere d'aiuto nella sua ricerca disperata di un motivo per chiudere la porta di casa, ogni mattina, col sorriso. Osservo quotidianamente gente che cammina a testa bassa, con cuffie nelle orecchie che non trasmettono musica, ma solitudine. Che abbozza un saluto al barista di turno, il quale, quel giorno, ha casualmente dedicato qualche secondo in più del solito a quel triste habitué, versandogli un bicchiere d'acqua gassata ancor prima che lui glielo chiedesse sottovoce.

Eppure, basterebbe così poco per comprendere il senso del vivere con gli altri, la bellezza di condividere un'idea, o, ancor di più, di scontrarsi col pensiero del primo passante.  Le persone, credo, pensano che sia meglio creare un alter ego, così da avere, da un lato, una personalità anonima da sfoderare in pubblico, dall'altro, un io arrabbiato che ogni sera si sfoga davanti allo specchio, criticando ferocemente chi si comporta come lui. Rimane un mistero, per me, il motivo per cui gran parte dell'umanità si ostini ad essere, in fondo, nient'altro che un paio di calzini, ossia doppio, ma, in realtà, uguale a se stesso, nonostante ce la metta tutta per apparire diverso.

E dunque ciascuno dovrebbe provare, sforzarsi almeno, ad aprirsi al prossimo, cercando di aiutare un cieco, anziché guardarlo con curiosità mista a diffidenza, ignorando il fatto che lui vede il mondo in un modo che nessun occhio umano può solo immaginare di fare. Perché si fida degli altri, deve farlo, ma ne farebbe volentieri a meno.

Ebbene, un buon inizio sarebbe il dialogo, mattoncino ideale per costruire la fiducia negli altri, e dunque il senso di comunità. Perché, anche chi rifiuta con diffidenza di assaggiare un croccante offerto dalla vecchina seduta accanto a lui sul treno, chi si sfrega le mani con comuni disinfettanti tascabili dopo aver fatto l'elemosina o il segno della pace in chiesa, chi preferisce perdersi per strade sconosciute piuttosto che chiedere indicazioni a chicchessia, chi si ostina a camminare a testa bassa e mugugnare saluti in pubblico, chi, insomma, schifa tutto e tutti, forte dell'autoconvinzione di doversi preservare dal mondo intero, ecco, proprio costui, dovrà fare i conti col fatto che anche i cuochi  dei migliori ristoranti, o di quelli da lui abitualmente frequentati, immancabilmente, si fanno il bidet.


lunedì 16 aprile 2012

Toponomastico.

Ieri, oggi e domani è sempre l'onomastico del topo. Non che ci sia qualche santo in particolare con questo nome bizzarro. Piuttosto, si tratta di una continua celebrazione del topo di fogna, laddove il topo è l'uomo e la fogna la città in cui vive. Mettete da parte, dunque, le classiche definizioni che i vocabolari danno di questa parola e leggete fra le lettere il vero significato del termine. Dopo di che, scendete per strada e andate a festeggiare il primo topo che incontrate.

Il topo che fa l'onomastico può avere le sembianze di un piccolo topolino di campagna, che si infila nella casa altrui e rosicchia il formaggio messo sul tavolo a stagionare, laddove il topolino è il ladruncolo abituale, la casa è la macchina di qualcuno e il formaggio è la borsa lasciata tranquillamente nel portabagagli.

Oppure, il topo in questione è un topo grosso e brutto, praticamente un ratto, che trova un pezzo di cibo avariato nei pressi di un cassonetto della spazzatura e scaccia con arroganza tutti gli altri topi che si avvicinano al suo pasto, laddove il grosso topo è l'autista di un suv, il pezzo di cibo è un parcheggio in doppia fila, il cassonetto è un'area di sosta riservata agli invalidi e tutti gli altri topi sono gli automobilisti che non riescono a passare in quel'angusto spazio che c'è fra la doppia fila e il ciglio della strada.

Oppure ancora, potreste assistere ad una scena nella quale un topo di taglia media digrigna i denti nei confronti di un altro topo di eguale misura, perché quest'ultimo ha sfiorato inavvertitamente la coda del primo con la sua, e intanto, intorno a loro, si radunano altri topi per assistere alla scena, in attesa di mangiare i resti del litigante sconfitto, laddove il primo topo medio è un uomo medio che passeggia, il topo che l'ha urtato è un uomo in motorino e tutti gli altri topi sono i passanti tutt'altro che indaffarati, che giudicano e commentano l'accaduto, formando un drappello che occupa l'intera strada.

Proprio quella strada in cui si trovano il piccolo topolino, la casa col formaggio, il topo grosso e brutto, il pezzo di cibo accanto al cassonetto e i topi allontanati con rabbia dal ratto puzzolente. Su quella strada, infine, ci siete pure voi, per un motivo che avete già dimenticato, tanto è il disgusto per quella enorme fogna in cui avete messo piede.

Allora tornate subito a casa, con l'unico desiderio di chiamare la derattizzazione e farla finita con tutti quei topi, una volta per tutte.

Per festeggiare il toponomastico, d'altronde, c'è anche domani.

domenica 15 aprile 2012

Ho i piedi adatti per camminare sulle stelle.

Non scrivo da un pò. Perché, per adesso, ho preferito affacciarmi dalla finestra della mia stanza e guardare le stelle. Anche quando piove e il cielo carico di nuvole prova a nasconderle. Ma l'oscurità, che arriva sempre prima della luce, e sta lì ad aspettarla, ogni volta, di fronte alle stelle, si fa da parte. E si squarcia, in miriadi di buchi lucenti che brillano senza una direzione precisa.

Immagino di camminare su quelle stelle, di usarle come ponte magico per arrivare da te. Ogni volta che sento il bisogno di abbracciarti, ogni volta che desidero vederti, ogni volta che capisco dalla tua voce cosa significa essere felici, perché ormai siamo uno dentro l'altra e ogni mattina ci svegliamo assieme, anche se in letti diversi.

E così, un passo dopo l'altro, su sentieri che illuminano il mondo intero e che, stavolta, riesco a vedere solo io. Ho come una bussola nella testa, che non segna il nord, ma si muove solo quando, ridendo con l'anima, sentiamo quella piccola scossa lungo la schiena che vuol dire vita.

Seguo quei puntini bianchi, mettendo con attenzione i piedi al centro di ogni piccola forma celeste che incontro, per non cadere e dover ricominciare daccapo. Ho i piedi adatti per camminare sulle stelle, me lo dici sempre, prendendomi in giro. Io dapprima metto il muso, poi guardo i miei piedi grossi e piatti e rido pure io. In equilibrio, dunque, salgo, corro, scendo, mi piego, rallento, fino ad arrivare a te.

Che mi aspetti dietro la porta, che apri solo appena capisci che sto per arrivare, mentre mi accingo a salire quell'ultima rampa di scale. E allora ti vedo, in cima, che mi sorridi. E resto lì, fermo, per qualche secondo, a guardarti. Spettatore di uno spettacolo in scena solo per me.

E poi, superato l'ultimo gradino, mi fermo di nuovo, a pochi millimetri dal tuo viso. Per respirare il tuo profumo e lasciarlo entrare dentro di me, per farlo scorrere nel mio sangue, fino al cuore. E infine ti bacio.

Ma ancora non ti posso abbracciare. Ho in mano una stella, che ho preso lungo il cammino e che ti voglio regalare.

mercoledì 29 febbraio 2012

Non saprei dargli un titolo.

Ho fra le mani il mio futuro. Più chiaro di così. Un motivo in più per dire che colui che ha molte domande alla fine avrà tutte le risposte che cercava. E che a volte coincidono con quelle che sperava. E quando le domande sono lucide, come il vetro di una finestra appena lavato, ecco che quello che c'è fuori si vede con una chiarezza che davvero sembra tutto finto.

Sebbene nulla sia certo nella vita, tranne la morte, che però non è vita e perciò non conta, a volte capita di sapere già tutto prima di tutti, all'improvviso, come un dono innato che ci ha fatto qualcuno, o che abbiamo trovato a terra, e che di solito era proprio davanti agli occhi, ma non ce ne siamo accorti per tanto tempo, tanto era vicino.

Potrebbe non piacere. Oppure essere qualcosa che va davvero oltre ogni aspettativa. Dipende dal carattere di ciascuno, o da dove getta lo sguardo quando si affaccia da un balcone sul mare. Il fatto di guardare per prima cosa la spiaggia sotto o l'orizzonte dello stesso colore del cielo di fronte è decisivo e dirimente, anche se non sembra.

E insomma, pare che alla fine ognuno, anche solo per un istante, riuscirà a vedere il proprio futuro o a scorgerne i contorni. O comunque ad averne coscienza, ad avvertirne anche solo la presenza o a sentirne l'odore.

Io so, ad esempio, che sarò con te, ovunque sarò e qualunque cosa farò, ma con te. E avrà il colore dell'arcobaleno, l'immagine dei tuoi occhi e del tuo sorriso e il profumo di pane appena sfornato e rose non ancora appassite.

giovedì 9 febbraio 2012

Immaginate.

Immaginate, per un attimo, che tutto intorno a voi si fermi e si condensi in un'atmosfera ovattata e silenziosa di eccezionale intensità. Una sorta di estasi stradale, di domenica ecologica del caos, di nirvana dei martelli pneumatici. Come se tutte le voci fossero narcotizzate, incapaci di venir fuori con la solita regolarità; come se i corpi degli uomini si bloccassero, dopo aver succhiato l'ultima goccia di carburante divino; come se tutte le cose meccaniche o elettriche che normalmente schiamazzano nei dintorni si assopissero, in un sonno improvviso e senza spiegazione.

Non esisterebbero più i concetti di velocità, urla, movimento, che diventerebbero solo un ricordo, impossibilitato a trovare nella realtà un referente concreto. Nel nulla dei sensi, l'unico a funzionare sarebbe la vista. I vostri occhi schizzerebbero nelle orbite con una rapidità allucinante, stimolati a rendere al massimo per compensare l'assenza del resto. E coglierebbero questo strano spettacolo, trasmettendo al cervello immagini e sensazioni splendide e terribili al tempo stesso.

Ecco, immaginate tutto questo. Ognuno fermo nel luogo e nell'attimo in cui hanno avuto inizio il torpore e il silenzio, capace solo di osservare, pensare, riflettere e soffrire, perché l'uomo privo di azione e di contatto è come una rosa nascosta che nessuno può guardare.

Ma è davvero quello che desiderate? Serve tutto ciò per placare le ansie e la stanchezza, per avere consapevolezza di se stessi e capire le proprie emozioni? Per condividere un'idea anche stupida con la prima persona che si ha a tiro? Per far esplodere ordigni inesplosi, soffocati dentro voi stessi per paura del baccano che farebbero? Per sentire il sangue che scorre nelle proprie vene, il cuore che batte all'impazzata e lasciarsi affascinare dal creato?

Non credo proprio. Piuttosto, pensate al mondo col sorriso, senza che gli effetti dello scorrere del tempo e dell'evoluzione dell'uomo possano anche solo sfiorare la vostra idea di felicità.

Che è universale, e supera i confini dell'esistenza. Soprattutto quando si forma guardando negli occhi la persona che si ama.

venerdì 3 febbraio 2012

Neve.

La neve mi circonda. È soffice, bianca, come la panna montata. Ricopre ogni cosa, avvolgendola in un manto candido che consola. Ed è un tutt’uno col cielo. Bianco anche lui, ma meno soffice, adesso che non ci sono le nuvole.

Vorrei gettarmi lì, in quel chiarore lattiginoso, come un bambino fa con la sabbia della riva del mare, lasciando impronte e segni qua e là, frutto dell’istante che guida il mio corpo al posto della mente, ancora incantata per tutta questa neve.

E poi fissare ciò che ho intorno. Immaginando di avere una tavolozza in mano e tutto il tempo necessario per ridipingere il paesaggio come mi pare. Un foglio bianco da reinventare. Come facevo da bambino, appunto. Disegnando a tinte assurde persone e cose. E ricevendo comunque complimenti per non essere uscito fuori dai bordi.

Poi penso ai fiocchi che ci hanno sorpreso quella sera. Quando il freddo e il vento gelido non ci impedivano di lasciare in tasca i guanti e tenerci ugualmente per mano. Per sentire il calore del sangue che scorreva impetuoso, nonostante tutto. E ricordarci che anche da svegli si può essere felici, senza dover attendere i sogni.

Poi, all’improvviso, tutto si è fermato ed è arrivata lei, la neve. Che è scesa uniforme e ci ha ricoperto pian piano. Creando un paesaggio di un solo colore, al solo fine di far risaltare i nostri corpi e le nostre immagini. Ma soprattutto i tuoi occhi e il tuo sorriso. Che sono incredibili e colorano il mondo.

Che di solito è nero, oggi bianco.

Ma che per me, guardandoti, è sempre un arcobaleno.

sabato 28 gennaio 2012

Gente che mastica.

La gente mastica dappertutto. In questo momento, davanti a me, sul treno, una signora, più vecchia che giovane, ma comunque vecchia, sta masticando rumorosamente il suo chewing-gum. Che noi, in Sicilia, chiamiamo "masticante", e non "masticata" (o "masticandura est", rispolverando il latino), come forse sarebbe più giusto.

C'è chi mastica a lezione. Mentre spiega, intendo. Alternando parole a rapidi colpi di molare, credendo di attirarsi così la simpatia del giovane uditorio, invece disgustato da quel misto di finzione e nozioni a casaccio, destinato a dissolversi in una bolla di sapone, anzi in un palloncino, di chewing-gum.

C'è chi mastica mentre corre. Sputando saliva e sudore, distrae l'acido lattico, che, rallentato dalla curiosità di un così strano fenomeno, ritarda la sua solitamente puntuale invasione dei muscoli in uso. I famosi "rallentamenti per curiosi", generati, questa volta, da un tamponamento a catena fra denti e chewing-gum.

C'è chi mastica per noia, per ingannare il tempo tra un nulla e un altro, senza sapere che, in realtà, è il tempo che sta ingannando lui. E chi mastica per stress o per rabbia, scaricando in un chewing-gum pensieri e dubbi, lacrime e botte, come un pugile che colpisce solo col para-denti colorato, sfogandosi contro quella massa informe che ha in bocca, con le mani legate dietro la schiena e l'unico avversario di fronte a sè, riflesso in uno specchio.

C'è chi mastica a bocca aperta, mostrando a tutti di che pasta è fatto, cioè di chewing-gum, che, una volta sputato, si rattrappisce e assume il colore della superficie su cui si poggia, di solito la strada. E chi mastica con la bocca chiusa, concentrato in un silenzio interiore che contrasta col rumore regolare del ruminare, che infatti è uno scioglilingua, se letto sovrappensiero.

Il fatto che l'intero pianeta, a conti fatti, mastichi di continuo, mi fa pensare a quanto sarebbe bello se tutti rispettassero l'elementare regola del galateo secondo cui non si parla con la bocca piena. Allora ci sarebbe silenzio, che invita alla riflessione. Un silenzio rotto solo da uno schiocco improvviso. Quello del mondo che, da buon palloncino di chewing-gum qual è, ad un certo punto si riempie troppo di aria e parole vuote, ed esplode.

giovedì 12 gennaio 2012

Riflessioni sui treni.

Ho scoperto di amare i treni. Infatti sono stato subito sottoposto a test psichiatrici dopo questa affermazione. Mi piace quell'odore di usato misto a ferro e polvere, che mi sale nel cervello e mi catapulta in un'epoca passata, quando fuorilegge a cavallo assalivano treni lentissimi quasi sempre carichi d'oro, sparando in aria per far paura, credo agli uccelli. Ecco, tutti, di solito, quando si trovano davanti all'unico reperto storico di tale evento, ossia un film western, guardano all'intera scena per vedere entro quando le poche guardie del treno capitoleranno. Io, invece, guardo al treno, indifeso e vittima sacrificale di turno. E penso a tutto ciò quando entro in un treno di oggi, sporco e polveroso come quello descritto. E con lo stesso buon odore. Considerazione che spiega quella lettera minatoria pervenutami qualche tempo fa a nome di un noto profumiere cittadino venuto a conoscenza per caso delle mie elucubrazioni da binario morto.

Mi piace vedere la gente che sale e che scende, ognuno con una propria vita e un proprio obiettivo, che di solito coincide col mio, ossia arrivare a destinazione. Però è bello immaginarne il mestiere, la famiglia, la derivazione sociale, l'hobby, se ha un cane, quante volte fa la cacca in una settimana e se quando si siede a tavola dice buon appetito. Insomma, ogni tanto mi fisso con qualcuno, solitamente per una strana somiglianza con un personaggio della tv, e provo a ricostruirne l'esistenza. Forse è per questo che nessuno ha mai attaccato bottone con me su un treno, come avviene di solito, più per mancanza di alternative valide che per altro (chi sale sul treno senza almeno un quotidiano è spacciato, non sa che fare e deve parlare con qualcuno, sennò impazzisce). Perché appunto sono invadente. Solo con lo sguardo, si intende. Ma tanto basta a distinguermi dal passeggero taciturno che guarda fuori, subito accalappiato dall'oratore di turno, incuriosito dai segreti e dai pensieri nascosti così abilmente dal malcapitato conviviale appena conosciuto. Che poi magari era un appassionato di botanica, rimasto colpito dalle eccezionali coltivazioni del paesaggio circostante e basta.

Il paesaggio fuori, in effetti. Veloce, immediato, trasformista. Alberi a cento all'ora, case che svaniscono all'improvviso, persone ferme in macchina nel traffico. Così imparano a non prendere i treni. I miei occhi fanno ovviamente fatica a stare dietro a tutto questo. Penso che sul treno, ancor più che sull'aereo - dal quale, se ci fate caso, si assiste allo scorrere del paesaggio che è di un lento esasperante - ecco, su quel mezzo sulle rotaie si apprezza davvero il tempo che passa e la Terra che gira. E il vomito del bambino accanto a te che ha provato a guardare fuori per più di tre secondi, dopo l'ennesima brioscina ingollata per ordine perentorio della madre.

E qui arriva il capitolo cibo. Su un treno si mangia di tutto. Dalla pasta al classico panino, dalle patatine al cioccolato. Verso l'ora di pranzo, una carrozza del treno diventa l'albero della cuccagna, la fiera gastronomica del paese, il paradiso degli obesi, la trattoria dei viaggiatori. Una goduria per la vista. E a volte anche per il palato, quando qualcuno ti offre un pasticcino apparso per magia assieme a tanti suoi fratellini colorati sul sedile accanto al tuo. Che si somma a tutto quello che hai già ingurgitato qualche ora prima, per un'improvvisa fame, che si è scatenata senza motivo appena seduto al tuo posto. E' impressionante come la fame sia inversamente proporzionale al moto. Poi bevi, tanto. E quindi devi pisciare. In un bagno che, in verità, rimane fra le pochissime cose, in questo pianeta, a non essere (ancora) patrimonio dell'Unesco.

E infine l'aria della carrozza del treno. Densa, afosa, vissuta, che piano piano ti appanna la vista, finché non riesci a vedere più i contorni dei tuoi compagni di viaggio, che diventano fantasmi ai tuoi occhi, seppur vestiti e non con un semplice lenzuolo bianco di sopra. Un pò come i personaggi dei libri, che ognuno crede di immaginare durante la lettura, ma poi, al confronto con l'immancabile film ispirato a quelle pagine innocenti, improvvisamente vengono dimenticati, non si ricordano più come prima. E si finisce per dubitare, in effetti, di averli pensati sul serio, con una faccia, un corpo, qualche difetto qua e là e le smorfie giuste al momento giusto.

Queste sono le mie riflessioni sui treni. Cioè fatte sui treni. Anche materialmente, intendo. Forse si spiega, allora, perché, quando scendo da quel mezzo senza ruote, antico e sicuro, artificiale ma perfettamente calato nella natura, cavo ma pieno, che unisce persone e luoghi, ecco, mi assale un pò di malinconia. Un pò come i fuorilegge facevano coi treni nel Far West.