venerdì 29 aprile 2011

Quando capisci di essere matto.

Capisci di essere un po’ matto quando ti accorgi che qualsiasi cosa tu possa fare, leggere, ascoltare, perfino mangiare, in realtà, per te, ha sempre un altro significato. Faccio un esempio. Per me leggere un libro non è mai un’azione fine a se stessa. Nel senso che non lo faccio solo perché voglio finire il libro, cioè per arrivare alla conclusione del best seller, all’assassino del giallo, alla lacrimuccia del romanzo rosa, al successo del buono o alla sconfitta del cattivo (o almeno così ci si augura a inizio lettura, salvi i casi di simpatia macabra per il killer di turno o odio becero verso la giovincella rapita, che forse forse se lo meritava), ma per trovare frasi, spunti o citazioni che possano cogliere e riflettere il mio stato d’animo transitorio. E quando li trovo, faccio l’orecchia al libro per ricordarmeli. Con buona pace dei cultori dei libri “intonsi”, che magari si lavano pure le mani prima di iniziare a leggere e mettono quelle mefitiche foderine trasparenti sulle copertine, che iniziano a soffocare e stingono in parte per disperazione e in parte per ripicca.
Stesso dicasi quando ascolto musica. In preda a raptus di onniscienza da musicologo, vado subito a cercare il testo della canzone per annotarmi quella benedetta frase che tanto fa al caso mio e che ho ascoltato di sfuggita, sovrappensiero, ma era così perfetta, così adatta a quello che stavo pensando o a quello che per ora mi sta accadendo che non posso ignorarla così, su due piedi.  La cosa si complica quando la canzone è in inglese o quando è rap o hip hop, che vanno così veloci che se provi a imitarli ti attorcigli la lingua peggio delle cuffiette dell’i-pod quando le esci dai meandri della borsa dell’università. Per non parlare di quando ascolto quella determinata canzone alla radio. Magari per la prima volta. È un dramma. Devo ricordare a mente almeno due o tre parole (perché la maggior parte dei casi sono in macchina e non posso certo mettermi a scrivere mentre guido, anche se a volte accosto di brutto e annoto sul cellulare quello che ho sentito), andare su internet a cercare il testo corrispondente e finalmente individuare la canzone. Che poi molte volte le parole che ricordo si rivelano clamorosamente sbagliate, un po’ come un telefono senza fili mal riuscito. O ben riuscito, secondo quella corrente di pensiero, di cui faccio parte anch’io, secondo la quale se alla fine del giro di sussurri all’orecchio l’ultimo della fila dice una frase completamente senza senso e naturalmente agli antipodi rispetto a quella di partenza, allora il gioco è riuscito alla perfezione. Perché se fai un gioco lo fai per divertirti. Se non ti diverti non è un gioco (perdonate il qualunquismo infantile da bambino in coda per salire sulle montagne russe). Immaginate che delusione se alla fine del giro del telefono senza fili il malcapitato all’ultimo posto ripete esattamente la frase di partenza. A quel punto è matematico che si cambia gioco. E qualcuno potrebbe pure prendersela con chi quel gioco l’ha scelto. Insomma, dicevo del telefono senza fili nella mia testa. È grave che mi dimentichi subito quello che in teoria non dovrei dimenticarmi. Figuriamoci poi se si tratta solamente di due parole di una canzone. Però, a mia parziale discolpa, posso appigliarmi all’altro dato che ti fa credere di essere un po’ matto, ossia il fatto di pensare sempre. Penso troppo, a volte più cose in uno stesso momento. Anche quando è meglio lasciar perdere. Anche quando è più opportuno rilassarsi. Per esempio prima di dormire, quando sonno non ne ho ma dovrei cercare di farmelo venire, comincio a pensare ad un sacco di cose. Ricorrente è il pensiero per cui quando dormo, in effetti, non posso controllarmi e non posso guardarmi intorno. Un po’ come essere morto, ma con tutte le funzioni vitali perfettamente attive. Finisce che mi impaurisco pure e allora conto le pecore. Peccato che quelle maledette pecore non si limitino a saltare il recinto e andarsene ma fanno le finte, tornano indietro, saltano a due a due, aggirano il recinto, dormono (loro sì!), brucano l’erba e si accoppiano. Insomma, mi fanno perdere il conto e soprattutto mi fanno innervosire. E allora mi alzo, bevo, faccio pipì, bevo ancora, faccio di nuovo pipì (senza capire che è un circolo vizioso, accelerato dal nervosismo che, insieme al freddo, è la cosa più diuretica che c’è, altro che l’acqua di alcune sorgenti blasonate). In conclusione, dormo sì e no un paio d’ore, perché implacabile suona la sveglia prestissimo e inizia, fresca e baldanzosa, la giornata più stancante delle settimana. Guarda caso preceduta da una notte insonne.


“Io rimugino tantissimo. Quando cammino. Quando lavoro. Quando mi diverto. Quando mi compiango. Quando faccio l’amore. Soprattutto quando non lo faccio.”
(Diego De Silva, “Mia suocera beve")

Nessun commento:

Posta un commento