lunedì 26 dicembre 2011

La mattina di Natale.

La mattina di Natale sta in una palla di vetro. Con la neve, per chi ce l'ha. La prendi, la muovi, la osservi da tutte le angolazioni, ma la mattina di Natale resta sempre lì, imprigionata in quell'involucro trasparente, al riparo dal mondo, col quale non spartisce niente, tranne un giorno nel calendario.

Per molti è una mattina di regali. Per i più piccoli, soprattutto. Perché a mezzanotte sono già a letto, stanchi perché lo dicono gli adulti, e devono aspettare il giorno dopo per scartare quei pacchi colorati, che vengono consegnati loro dai parenti, sebbene però ancora a nome di Babbo Natale.

Sotto un albero verde, acceso di luci anche in pieno giorno, quando il sole di fuori sarebbe sufficiente a rischiarare tutta la stanza. E allora io pensavo che quelle lucette intermittenti servissero proprio ad aprire i regali, che fossero puntate esattamente sugli apparentemente inestricabili fiocchi di nastri, ultimo ostacolo prima dell'agognata sorpresa. Quando ero ancora un essere umano in miniatura e, dormendo a casa della nonna, correvo in pigiama, inciampando, verso la stanza con il grande albero, pensavo che Babbo Natale fosse il migliore elettricista e scenografo del pianeta. Oltre che, naturalmente, capo della più efficiente ditta di spedizioni dell'intera galassia.

Adesso è diverso. Per me, la mattina di Natale è una mattina di voci e suoni. Mi sveglio sempre dopo tutti gli altri, contrariamente alle mie abitudini mattiniere. Apro gli occhi perché sento parlare e ridere i miei genitori e mio fratello, di là. La mia mente si desta dal sonno e si instrada in quei dialoghi e in quelle risa, viene investita da quel tornado di parole e sorrisi e si lascia trasportare da lui, che non la sballottola senza ragione, bensì la culla dolcemente. E' una morbida melodia che mi avvolge, che mi fa subito capire di essermi svegliato la mattina di Natale.

Ho già scartato i regali, la sera prima. E l'albero a casa della nonna non c'è più.
Eppure, mi alzo in pigiama e corro, inciampando, verso di lui. Che ancora oggi riesco a vedere, laggiù, in fondo al corridoio, gigante buono di aghi che non pungono, con le radici che affondano in tantissimi regali colorati. E con le luci intermittenti, che mi aiutano a scartarli. Mi guardo le mani e sono minuscole, il fiocco rosso è ancora lì e tutti mi osservano impazienti per vedere se, una volta aperto, mi piacerà il regalo. Come se sapessero cosa mi ha portato Babbo Natale.

Anche quest'anno ho visto tutto ciò, la mattina di Natale. Tenendo in mano la palla di vetro che la contiene. E che sta appesa all'albero della mia vita.

mercoledì 14 dicembre 2011

Autumn in december.

Dicembre, per tutti, è già pieno inverno. In realtà, stando agli impronunciabili solstizi,dicembre cade quasi tutto in autunno e solo da giorno 21 entra, timidamente, nell'inverno. Nel primo inverno, a dirla tutta. Quello teoricamente ancora non troppo freddo, piovoso, innevato. Incazzato, per dirla con una parola sola. Oppure, è un autunno che si attarda, con foglie che cadono sempre più lente e annoiate, appesantite dalle piogge e dalla malinconia. In effetti, però, è difficile immaginare Babbo Natale che sfreccia con la sua slitta su una strada ricoperta di fogliame, armato di ramazza e con un cartoccio di caldarroste in mano. Perciò, ci accontentiamo del primo inverno, così, tanto per non sottovalutare un mese così importante. D'altronde, che cada la neve o cadano le foglie, poco importa. L'importante è che cada qualcosa.

Proprio quel Babbo Natale tanto caro ai bambini, come recita l'incipit di ogni letterina spedita per magia dal tavolo di casa propria a quel nonno di cui ci si ricorda solo una volta l'anno. E anche se, di questi tempi, l'aggettivo in questione è da intendere più in senso economico che affettivo, alla fine ogni bambino, in tutte le epoche, almeno una volta nella propria vita, ha fatto qualche richiesta per iscritto al simpatico vecchietto barbuto, alla faccia degli errori di grammatica e della calligrafia traballante ma felice.

Quando arriva dicembre, è già Natale. Ogni giorno è il 25, il che sembra andare contro il principio per cui, secondo mia nonna, puoi sbagliarti sui compleanni di tutti, ma su quello di Gesù non ci si può sbagliare: è pure segnato in rosso sul calendario. In realtà, è l'atmosfera che si respira a dare questa impressione, perché il mondo sembra girare a velocità rallentata.

La gente cammina per strada a passo lento e il corpo impiega un sacco di tempo a effettuare il minimo movimento, quasi come accade nelle riprese a rallenty in un film. Anche i suoni subiscono una metamorfosi simile, come un 33 giri messo alla velocità di un 45 giri. Sono il calore e l'intensità delle luci per strada ad appannare la vista di ciascuno, a filtrare lo sguardo attraverso una coltre trasparente di nuvole, a rubare il tempo al tempo per trasformarlo nell'istante di un bacio, a separare il vero dall'immaginazione, mettendo da parte il primo per la seconda, lasciata libera di esplodere nella sua bellezza primigenia.

Come quella di tutti i bambini che, ancora oggi, scrivono a Babbo Natale, utilizzando un foglio di carta sul quale ogni sbavatura d'inchiostro è una virgola di sorriso sul viso di ognuno di loro. E su quello di ognuno di noi che ancora è in grado di accorgersene.

lunedì 5 dicembre 2011

Il gatto dei miei stivali (parte II).

Dunque, dicevo che i padroni del felino di feltro sono una coppia, due ragazzi, che per un po’, agli inizi, non si vedevano spesso. Anzi, a dirla tutta, ogni tanto sparivano per alcuni giorni, per poi ricomparire magicamente la settimana successiva, assieme al gatto, naturalmente. Forse era proprio questa saltuarietà ad avermelo reso simpatico, le prime volte, presenza animale in un mondo di cemento, troppo freddo d’inverno e afoso d’estate, nel quale ogni movimento è accolto con gioia, figurarsi quello di un essere vivente, che non parla soprattutto, merce rara di questi tempi.

A poco a poco, però, la coppia è tornata ad abitare la casa sempre più stabilmente, esponendosi con costanza ai miei avvistamenti da paparazzo di quartiere e costringendomi ad abbandonare definitivamente l’idea di avere involontariamente beccato gli alter ego di Diabolik ed Eva Kant. Il Signor G, dunque, di sicuro più facilmente individuabile rispetto all’omonimo Punto, ha avuto tutto il tempo di costruirsi il piedistallo dal quale mi osserva ottuso e di colonizzarlo con la sua mole invadente, diventando, in definitiva, il mio vicino di casa a tutti gli effetti. E il mio nemico, in una guerra psicologica dagli esiti forse scontati.

E dire che una volta credetti pure di essermelo tolto di torno. Una sera d’estate, bella solo nelle canzonette ma, nei fatti, solitamente accostata dagli studenti a interminabili giornate di studio sudato, rincasavo baldanzoso e allegro, conscio di non aver buttato al vento, pressoché inesistente (era giugno, che assomigliava all’agosto nel Kalahari), il mio programma giornaliero di ripetizione.

Alzando la serranda della cucina, posta a fianco di quella della mia stanza e perciò dalla vista sostanzialmente identica, mi resi conto che Diabolik ed Eva non erano ancora tornati. Tutto buio e niente gatto. Solo una luce, che si muoveva lenta, sospesa nel vuoto di una delle stanze di quell’appartamento: un microonde, collocato sul frigo, con qualcosa dentro. Il gatto, pensai, osservando quella scena oggettivamente inquietante. Finalmente se ne sono liberati o forse lui, nella sua infinita stupidità, si è cacciato là dentro chissà come e adesso finirà cotto a puntino, senza che Eva lo possa salvare. Mentre pensavo speranzoso a tutto ciò, ecco che il micio fa capolino alla fatidica finestra, un po’ rintontito per le ovvie botte al muro prese in una casa buia, ma adesso ben saldo sulla sua plancia di comando.

Quella volta mi sorrise, ne sono sicuro. Anzi, sogghignò, godendo della mia delusione e leccandosi i baffi per l’ennesima vittoria ottenuta ai miei danni. O, forse, per il pollo che già da un po’ girava lento nel microonde.

Il gatto dei miei stivali (parte I).

Quel maledetto gatto mi sta guardando. Come ogni mattina. Appollaiato sul davanzale della finestra di fronte, bianco candido non certo per meriti propri, inutile soprammobile deambulante, fissa i suoi occhi gialli nei miei. Mi osserva sornione, credendosi onnipotente, padrone incontrastato di casa sua, un re che regna su un appartamento vuoto, sovrano del nulla. Sicuramente tutti si prostrano ai suoi piedi, lo accarezzano magari, vantando i padroni per la cura di un pelo che sarebbe irto e sporco come il suo animo, se non fosse per quelle mani caritatevoli che ogni tot a settimana lo ripuliscono di tutto punto, come si fa con l’argenteria. E quando qualche ospite gli calpesta la coda, gli chiede subito scusa, come se lui capisse.

Io odio i gatti, questo si era capito. Nei loro confronti, applico quel vademecum della quotidianità che è dato dai luoghi comuni, e perciò sostengo che puzzano, e pure tanto. E odio ancor di più lui, quel gatto vicino di casa, che farei volentieri a meno di guardare, se non fosse che la finestra della mia stanza è posta inesorabilmente di fronte alla sua. Devo per forza alzare la serranda, appena mi alzo, quantomeno per far entrare un po’ di luce da fuori. Non che i risultati siano eccelsi, dal momento che io abito al piano terra (come il gatto) e la mia razione di sole arriva all’incirca verso mezzogiorno, barlume di allegro colore che fa sorridere le mura della mia camera, gialline per l’avarizia della padrona di casa che, per ridipingerle, non sembra si sia rivolta propriamente a un pittore professionista. E dunque, ecco il destino beffardo: io devo spalancare la finestra della mia stanza e non posso sottrarmi alla vista del bianco felino, il quale, facendolo certamente apposta, ogni santo dì si piazza su quel davanzale. E mi fissa. E non si muove, quel grasso pallone peloso latteo.

Inizialmente mi piaceva pure, la verità. Nelle prime settimane di permanenza nella nuova città, cercavo di prendere confidenza con la realtà con la quale avrei fatto i conti per un po’. E dunque, naturalmente, ho iniziato tracciando i confini sicuri del mio palazzo e del mio isolato. Questa operazione non poteva prescindere dall’osservazione dei miei vicini di casa. Per me, i vicini di casa non sono coloro che condividono il pianerottolo, ma tutti quelli che circondano l’edificio in cui abito, come una sorta di esercito che cinge d’assedio la cittadella fortificata del mio condominio. In effetti, ora che ci penso, questa metafora guerresca si adatta bene alle realtà condominiali.

Comunque sia, sfruttando ciò che la mia accogliente torretta d’avvistamento, arredata con mobili rigorosamente Ikea, mi permetteva di vedere, ho potuto soffermare la mia attenzione sul corrispondente piano terra del palazzo accanto. Sì, perché, come in tutte le grandi città che si rispettano, è difficile che una casa in affitto per studenti goda di una vista incantevole. E dunque, anche la mia, per non essere da meno, si affaccia su un palazzone di sei piani, dal quale è separata per mezzo di un piccolo viottolo, nel quale si affollano le macchine dei fortunati condomini che si sono assicurati il posto auto, con un’estrazione molto più attesa e ansiogena di quella della Lotteria Italia.

Per intenderci, solo dopo un anno ho appreso che il vicino di pianerottolo, molto più “vicino” della coppia col gattaccio del palazzo accanto, è un qualche militare in carriera, o forse un pilota d’aerei. Ecco, insomma, ancora non conosco chi calpesta la mia stessa parte di corridoio dell’androne, chi apre la propria porta di casa a pochi metri dalla mia, chi potrebbe bussare alla mia porta, un giorno, come nei film, per chiedermi un po’ di sale, per poi attaccarmi un bottone pazzesco sui rincari del riscaldamento. Che poi, se ci penso, il sale è la prima cosa che una persona acquista per riempire la dispensa di casa, assieme alla pasta, allo zucchero e al caffè. Anche il pilota di astronavi avrà fatto così, e perciò nessuna scusa per importunarmi. Meglio così.

Il mio primo bis è stato di polpette.

Erano di carne, al sugo. E io ero all’asilo. Anzi, alla mensa dell’asilo.

Quello stesso asilo nel quale, una volta, girai nudo dopo aver fatto la cacca, perché nei pressi del bagno non c’era la maestra a portata di mano per aiutarmi nelle operazioni successive alla fattura. Nessun imbarazzo provai nel percorrere in costume adamitico il corridoio sul quale si affacciavano le classi, rintracciando alfine la maestra e ottenendo quello che volevo. Solo quando poi quest’ultima riferì a mia nonna l’accaduto, mi sfiorò un minimo di vergogna, non tanto per il fatto in sé, quanto per il rimprovero che credevo mi sarebbe giunto, di lì a poco, per quell’increscioso episodio.

Che poi, se ci penso, non esistono regole di buon costume per i bambini. Tranne, forse, per quanto riguarda le parolacce. Anche se, in questi casi, c’entra, più che altro, la curiosità di ripetere una parola nuova, che l’adulto di turno proibisce di pronunciare, dopo che lui stesso se l’è lasciata sfuggire, colpevolmente, alla presenza del bambino, che è pronto a recepire quel suono con orecchie attente, anche se sembra stia pensando o facendo tutt’altro. Comunque sia, l’assenza di regole favorisce non poco la naturale inclinazione del bimbo a trovare soluzioni pratiche e veloci ai problemi di ogni giorno, con quella spensieratezza che, piano piano, ognuno di noi perde a favore dell’apprendimento e dell’applicazione delle regole stesse.

In ogni caso, tornando a me, mia nonna risolse tutto con un sorriso e con una delle sue battute - che adesso non ricordo, perché ai tempi non la capii - facenti parte di quel repertorio di semplicità e tradizione che le invidio fortemente. La stessa semplicità con la quale, prima di dormire, mi raccontava quelle che io pensavo fossero storie inventate e che, invece, erano tutti episodi di vita vissuta.

La stessa semplicità con cui, ancora oggi, mi sento di poter affermare, emozionandomi, che polpette come quelle dell’asilo non ne ho più mangiate e che quello fu il più bel bis culinario della mia vita.

Caffè.

Mi sveglio, la mattina.

Yogurt al caffè, caffè nella tazza di latte e biscotti, caffè in tazzina per consumare quello rimasto nella caffettiera, caffè al bar sotto casa aspettando il bus, caffè al bar dell’università appena arrivato, caffè durante la pausa della lezione, caffè dopo pranzo.

Di norma, io sono un tipo tranquillo.