sabato 22 ottobre 2011

Il teorema della mosca.

Ho capito che cresciamo tutti, prima o poi. Cambiano i punti di riferimento, se non altro perché molte cose ci sembrano più piccole di come ce le ricordavamo. E noi più alti. Cambiamo in viso, tranne che in rari casi di immutati visi d'angelo, e nell'animo, anche qui tranne alcune eccezioni.

E qui arrivo io. Già il fatto di sorprendermi della natura che ci allunga e ci allarga ogni giorno di più, che ci colora in modo diverso a seconda degli anni, che ingrandisce il nostro contenitore della memoria che abbiamo in testa, così da poter incamerare sempre più ricordi, ecco, solo questo è sufficiente a fungere da indice della mia insana voglia di nascere adulto e morire bambino.

Sarà anche questo, eppure a volte credo di riuscire a toccare il tempo. Gli ho dato una forma, quantomeno un aspetto, spesso anche una voce, così sono più tranquillo. E' difficile, per chi come me è costantemente alla ricerca di una soluzione, sentirsi impotente di fronte alla sabbia che scorre in una clessidra, ai calendari che girano i propri fogli sempre più velocemente, alle stagioni che si succedono a ritmi ogni anno più vertiginosi. E non riuscire a fare nulla, limitandosi solo a guardare.

Dunque, mi convinco di vedere il tempo. E non penso che sia solo un'illusione della mia volontà. Ho fatto un semplice ragionamento: ogni cosa, nel mondo, quanto più è frequente e intensa tanto più conferma la propria esistenza. Prendiamo una mosca. Probabilmente nessuno si accorgerà di una mosca che entra in casa dalla finestra ed esce subito dopo dal balcone. Viceversa, se una mosca si stabilisce in una stanza e si palesa col suo imprendibile ronzio ogni qual volta qualcuno entri in quella stanza, allora, all'improvviso, accanto alla pianta da interni, il giradischi, la libreria e il tavolo di cristallo ecco che esisterà anche la mosca.

Applicando il teorema della mosca al tempo, riesco dunque a vederlo. E ciò mi accade con gli amici. La loro esistenza, i loro sguardi, le loro ansie e le loro felicità, i loro sorrisi e i loro abbracci, quando non sono solo di passaggio (come la mosca), ma si saldano nei giorni e negli anni con una forza ed una intensità tali da spaccare la terra e aggrappare le loro radici al centro del mondo, ecco, in questi casi, proprio in loro io vedo il tempo.

Lo guardo dall'alto, da quella nuvola rosa sulla quale mi trovo adesso con la donna che amo e dalla quale non voglio scendere più. Lo scorgo mentre prova a nascondere le sue spire in fretta, ma ormai è troppo tardi. E' bastato il suo movimento per farsi notare da me. Io lo osservo e sorrido sornione.

Proprio lui, il tempo, che voleva farmi credere che anch'io, prima o poi, avrei dovuto crescere, come tutti. Proprio lui, che si crede immortale e divino, trasparente e colossale in egual misura. Proprio lui, che invidia gli esseri umani e quindi assume la loro forma, per capire cosa vuol dire sognare o calpestare una merda. O semplicemente, per sentirsi amato dagli amici che non ha.

A differenza mia, che, grazie a loro, non crescerò mai.

mercoledì 12 ottobre 2011

Lo spettacolo.

Anche questa sera dormirò. Alla fine, il sonno prenderà il sopravvento, nel modo più naturale possibile. E io chiuderò gli occhi, prendendo in giro il sonno anche questa volta. Sì, perché la mia mente rimarrà sveglia, senza bisogno di caffè, ma solo grazie ai continui scossoni che le darà il cuore, tra un battito e l'altro.

E la mente penserà a te. Come sempre. Ignorando tutto il resto. E ce ne vuole, considerando quante miriadi di cose bussano alla porta di una mente in una notte, per essere ricordate. Eppure, pensa solo a te. La mente ha lo sguardo fisso sul tuo viso, sulle tue palpebre di miele.

Come fanno le cassiere quando un cliente va a pagare: guardano puntualmente in un'altra direzione, ignorando il malcapitato di turno mentre maneggiano il denaro e imbustano la merce, fissando un punto lontano verso il quale ognuno, dalla fila, si volterà almeno una volta, titubante, per capire di cosa si tratti.

Ecco, anche tutte le cose che passano per la mia mente, di notte, si voltano a guardare nella direzione dalla quale la mente stessa è attratta ogni attimo di più, avendo occhi solo per lei. E vedono ogni volta uno spettacolo diverso, ma comunque uno spettacolo.

Lo spettacolo di te che sorridi imbarazzata, arricciando poi il naso per cercare di frenare l'istinto che ti fa parlare con gli occhi. E alla fine nascondi il viso tra le mani, per contenere quel fiume in piena di sensazioni che ormai hai lasciato scorrere verso di me, spezzando dighe e argini che in fondo nessuno può credere possano davvero servire a fermarti.

Lo spettacolo dei tuoi gesti, soprattutto di quelli impercettibili, di cui mi accorgo solo io. Vocabolario di parole universali, che diventano particolari se rivolte a me. E che traducono significati molteplici, ognuno con un colore diverso, ognuno puro come le domande di un bambino, ognuno vivido e reale, sebbene a volte tu cerchi di nasconderli, incapace però di tenere il segreto per te.

Lo spettacolo della tua voce che, seppur sussurrata, provoca in me un trambusto assurdo. Perché parla di argento e oro, di cose vicine e lontane, di bianco e di nero, di sole e di luna. Di tutto, insomma. Di un tutto del quale non avevo mai avuto così bisogno in vita mia.

Lo spettacolo di te che non te lo spieghi e ti meravigli. E me lo domandi ancora. E ancora. E io, mentre ti rispondo, capisco quanto sia bello ripetersi. E sorprendersi ogni volta che ci interroghiamo a vicenda, come se fosse il primo giorno di scuola e mai l'ultimo.

Infine, lo spettacolo di te, che sei qui con me. E di me, che ancora non ci credo.

sabato 8 ottobre 2011

Tasche.

Tempo fa ho ritrovato in un cassetto un foglio di carta tutto spiegazzato. Su di esso c'era un disegno che avevo fatto da piccolo, che raffigurava due bambini in piedi uno accanto all'altro, io e mio fratello. Sì, ricordo che quella volta avevo deciso di ritrarre noi due, immutati compagni di banco della scuola della vita. Forse, proprio l'insolito soggetto del disegno (è difficile che un bambino ritragga se stesso e il fratello, in una fase dell'età in cui l'unico contatto che si ha tra fratelli è quello dei giochi o dei litigi) ha spinto i miei genitori a conservarlo. Magari non a metterlo in bella mostra in qualche cornice, data l'oggettiva bruttezza dell'opera e considerato il motivo unicamente affettivo alla base di questa scelta d'archivio. Perché gli affetti si tengono per sè, senza che occorra sbandierarli ai quattro venti.

Pur passando per uno discretamente bravo nel disegno, quella volta non ottenni un gran risultato, sebbene però, in verità, i miei unici capolavori presunti fossero per lo più l'immeritato frutto di pazienti ricalchi di celebri personaggi dei fumetti. Nel disegno in questione erano infatti ritratti due bambini, uno più alto dell'altro (e quello alto ero io, prova che, quantomeno in passato, il rapporto età/altezza tra me e mio fratello era direttamente proporzionale), con le braccia forse un pò troppo lunghe, magliette a tinta unita colorate non benissimo e pantaloni lunghi, con scarpe che tradivano un'eccessiva rotondità dei piedi e la probabile assenza di dita, data l'evidente difficoltà, che si riscontra per vero nelle matite di tutte le età, di disegnare correttamente e alla giusta distanza le dita dei piedi, come quelle delle mani.

Ma quello che mi colpì particolarmente, tenendo in mano quella reliquia dei tempi che furono, come un giovane archeologo che scopre un reperto inaspettatamente, è stato l'incredibile numero di tasche che avevo disegnato addosso ai due personaggi. Proprio così: tasche. Tasconi sui pantaloni, su entrambe le gambe, dalla vita alle caviglie, e sulle magliette, messe alla rinfusa, persino sulle maniche e sulle spalle.

Ricordo vagamente che per un periodo ebbi la passione delle tasche, ma non ricordavo che fosse così morbosa. Mi piaceva conservare tutto, cose, sguardi, emozioni, catalogarlo anche addosso a me, essere una biblioteca di ricordi ambulante, anzi deambulante. E penso che, forse, non ero poi così pazzo. In fondo, è da bambini che si riesce ad apprezzare davvero tutto, a fare di ogni momento vissuto, di ogni cosa toccata, un pezzetto di esperienza, minuscole fette di sapere per nutrire la vorace fame della curiosità, che divora miliardi di piccoli esseri umani in questo mondo, ogni giorno. Ed è quasi naturale che si tenda a voler conservare tutto questo, per paura che un domani esso sparisca, lasciandoci apparentemente soli e indifesi e, forse, definitivamente adulti.

Per questo, secondo me, servivano molte tasche. Non come adesso, che i miei vestiti sono perfettamente lisci e aderenti al corpo, e hanno piccole tasche, più per moda che utilità, dove per miracolo entra il portafoglio. Che ha molte tasche, è vero, ripiene dell'unica cosa che crediamo erroneamente sia davvero importante collezionare, chiudendo i ricordi nei cassetti della memoria e i sogni negli armadi delle stanze da letto. E voltandoci dall'altro lato ogni qual volta accade qualcosa al di fuori dei nostri schemi quotidiani.

E invece dovremmo avere ancora la voglia di conservare quello che ci capita ogni giorno. Come se raccogliessimo petali di esistenza per costruire un fiore completo, con l'umiltà di chi i fiori non va a comprarli direttamente dal fioraio, ma aspetta che crescano sul proprio giardino, se e quando la natura lo vorrà. Oppure, come tanti mattoncini che servono a costruire la torre dei desideri, che tutti sogniamo, ma che troppo presto rinunciamo a progettare, arrendendoci a quella che noi chiamiamo evidenza, senza sapere di aver appena dato un nome altisonante a un'invenzione già brevettata da altri, ossia il nulla.

Ho pensato a tutto questo quando ho rivisto quel disegno.

Poi, l'ho messo in tasca.