mercoledì 16 novembre 2011

La nebbia.

Vedo la nebbia che scende morbida e vaporosa intorno a noi. Sorrido, l’aspettavo.

Aspettavo qualcosa che ti nascondesse al mondo, anche al sole. Qualcosa più grande delle nuvole, che non bastano mai a coprire il suono silenzioso dei tuoi sorrisi. Archetti di legno impazziti che si incendiano sfregando le corde di violini che fremono, come saette nel cuore della notte, lampi di fuoco che ci difendono dai lupi, uno accanto all’altro formano gabbie spinate dalle quali non vorremmo uscire mai. E nelle quali siamo entrati apposta.

In questo modo io ti rubo al tutto. O almeno è così che lo chiamano gli altri, che non vedono quello che vedo io mentre ti abbraccio, in quella nebbia che ormai ci avvolge, sagome mute di sana follia, unghie che cercano la carne per immergersi al suo interno, per scivolare sul sangue, che scorre vorticoso nelle nostre vene, simbolo caldo di vita.

E così finiamo per ballare per strada, sulle note di una musica che arriva chissà da dove. Stretti nel mezzo della folla, che passa e non ci vede, forse per invidia. E intanto i nostri cuori, battendo all’unisono con la musica, sembrano dialogare fra di loro, usando un vocabolario sconosciuto ai più, anche a noi, che sorridiamo ascoltandoli, come si fa coi bambini che ancora non sanno parlare e comunque ci provano lo stesso, emettendo suoni che sono versi del presente e parole del domani.

Ringrazio la nebbia per questo regalo. Adesso posso portarti lontano, non so dove. Mi basta sapere di non avere una meta, ma di immaginarla solamente. All’inizio, un posto è uguale all’altro. Solo uno, però, alla fine, sarà quello giusto. Lo stiamo creando piano piano, senza accorgercene, con parole e gesti, come chi unisce pollici e indici delle mani per formare una cornice, puntandola dove non c’è nulla e vedendo al suo interno, all’improvviso, un castello.

Nel frastuono dei giorni, noi ci parliamo a sussurri. O con semplici sguardi, che accecano chi prova a guardarci per spiare il segreto della felicità. Sforzo inutile, perché i nostri corpi sono verità a se stanti, troppo luminose per essere viste con occhi normali, troppo pulite per chi possiede anime sporche, troppo grandi per essere capite dalla gente.

Quella gente che ancora non crede alla possibilità di vivere in un sogno a forma di veranda sul mare. È lì che ci lascerà la nebbia, dopo averci trasportato su ali di cotone, con le nostre dita che ci sono passate attraverso per intrecciarsi tra loro e formare le stelle.

mercoledì 9 novembre 2011

Pù, passa Paperino.

Riflettevo sul fatto che l'ultima scena dello spettacolo (dei pupi) del Governo Berlusconi, quella in cui al vertice di Palazzo Grazioli, tenutosi nella notte precedente al voto fatidico dei 308, ha fatto capolino una Smart col peluche di Paperino sul cruscotto, ecco, quella scena, secondo me, rispecchia alla perfezione la situazione politico-sociale italiana. Pù, passa Paperino, appunto.

Appare inevitabile e quasi naturale, cioè, concludere la pantomima di questo Governo bislacco, caotico e confuso, ridicolizzato dal mondo, depresso e deprimente al tempo stesso, con una filastrocca, che ha ad oggetto una conta, appunto, quella che Berlusconi ha fatto anche ieri, alla Camera, per rendersi conto (scusate la volontaria ripetizione) di non avere più i numeri per governare, o per tirare a campare, che dir si voglia.

Un uomo, Berlusconi, che ha esordito nella propria carriera politica facendo sorridere con le sue barzellette e col sorriso sicuro del self-made-man e ha concluso tale carriera facendo ridere e basta, togliendo così a quest'ultimo verbo il prefisso "sor" degli inizi, tre lettere che richiamano alla mente la Sora Cesira, ultima tra i tanti che adesso se la ridono per davvero.

Un personaggio comico, che a un certo punto può anche impietosire, che se la prende con la sfortuna ma non con la propria pigrizia, che gira nudo per la strada e poi, quando fa la doccia, mette un asciugamano intorno alla vita per il pudore che non può avere: un Paperino, appunto. Con tanto di divisa da marinaio, indumento che ricorda gli esordi del Premier sulle navi da crociera, guardacaso, nel ruolo di chi deve intrattenere la gente facendola ridere anche quando non ne ha voglia.

Una commedia disneyana, infine, quella del Governo Berlusconi. Un cartone animato, in realtà. Di quelli che, però, non guarda più nessuno: troppo ridicolo per gli adolescenti e troppo brutto per i bambini. Di adulti, manco a parlarne. Tranne per quelle volte in cui, a questo cartone, si sono intervallati film a luci rosse, stridenti, con tutta evidenza, con la cornice in cui sono stati forzosamente inseriti, tant'è che molti italiani, più per ignoranza che per ritegno, si sono coperti gli occhi con le mani. Ma, nonostante questo, sono andati comunque a votare.

Tutto questo, tuttavia, ha avuto una fine, come ogni cartone animato che si rispetti. Non tutti vissero felici e contenti, anzi, in realtà, praticamente nessuno. Nemmeno le opposizioni, che, in questa situazione, si sono dimostrate più cervellotiche di Archimede Pitagorico, più incomprensibili di Eta-Beta e più litigiose della Banda Bassotti, non essendo state in grado, a tutt'oggi, di sfruttare questa incredibile fortuna alla Gastone di cui sono, forse immeritatamente, destinatarie.

In tutto questo, non me ne vogliano i personaggi della Disney, e in special modo Paperino, che ho sempre preferito a tutti gli altri, da quando ne leggevo le "imprese" sul Topolino, e che, anche adesso, come si può notare, non dimentico, o sono costretto a non dimenticare.

E' passato, quindi, anche questo Paperino. Nella notte di Palazzo Grazioli, prima del giorno dei 308, nuovo numero da smorfiare, se solo si potesse giocare. Ultimo atto di una tragicommedia politica di cui tutti gli italiani sono stati, in fondo, attori principali. A stipendio dell'Europa, come Paperino lo è di Zio Paperone.

Per tutti, dunque, è passato Paperino.

Solo dopo, però, che ognuno di noi abbia giustamente sputato.

"Sic transit gloria mundi". "Sic transit Paperino".

giovedì 3 novembre 2011

Sbàttiti.

C'è una finestra che sbatte. Erroneamente si dice che sia la finestra a sbattere, ma in realtà sono le persiane, palpebre legnose di un occhio che si apre e si chiude a mio piacimento, solitamente per mezzo di un chiavistello, che cigola e geme di godimento perché, nel piccolo della stanza, è dal suo scorrere ferroso che dipende l'alternarsi del giorno e della notte in quei pochi metri quadri.

Apro le persiane quando la mattina decido di affacciarmi sul mondo e cospargermi di luce; le chiudo quando ho bisogno del buio avvolgente della notte per addormentarmi, placando i sussulti del corpo che trasuda ancora raggi solari e si illude di riceverne altrettanti dalla luna.

Questa volta, però, è il vento che fa sbattere le persiane. Io le guardo e le lascio fare. Esse sbattono a ritmo coi battiti del mio cuore, fanno rimbombare intorno a me ciò che mi esplode dentro, e che farebbe assordare chiunque se non fosse per quella scatola di pudore che è il torace, naturale frontiera insonorizzata delle paure e delle gioie, cassa armonica di uno strumento stridulo e stonato, che assomiglia a un tamburo senza rullante: il cuore, appunto.

Stranamente c'è un vento regolare, preciso, che non spira a folate ma a soffi, aria sputata dal cielo subito dopo essere stata inspirata avidamente per sottrarla alle nuvole. E questo vento fa aprire e chiudere rumorosamente l'occhio vitreo della mia stanza, d'accordo col mio animo, in virtù di un patto non scritto che mi vincola a lui e mi lega al letto, in attesa di non so che cosa di preciso.

E ad ogni fragoroso colpo delle persiane risponde l'eco di quel muscolo che, guarda caso, è posto in mezzo ai polmoni, tant'è che si dice tolga il respiro, quando pulsa a causa del sentimento, coinvolgendo il cervello in un ballo vorticoso in cui, in fin dei conti, ognuno conduce l'altro a sua insaputa.

Sbatte la persiana, batte il mio cuore all'unisono e al mio cervello arriva un impulso, un ricordo, un momento, sottratto alla memoria del tempo da quel soffio di vento e condotto, attraverso la finestra aperta, nell'orchestra del mio essere, nota mancante per raggiungere l'armonia perfetta.

Perciò è questo rintocco di vita che mi porta a pensarti, ancora, di nuovo, meravigliosa ripetizione di una vita parallela, che tutti abbiamo sognato, almeno una volta. C'è chi sogna di compiere chissà quale impresa, chi di risolvere un problema o, quantomeno, di trovare il modo per poterlo affrontare. Io sogno di vederti, uscendo dalla stanza, dopo aver ascoltato a lungo quella finestra che sbatte.

E' un ricordo che si trasforma in sogno per diventare, un giorno, realtà. Tu lo sai. Io lo so. E aspetto te, ogni istante del mio tempo, col solo pensiero di riabbracciarti mentre mi sorridi, offrendomi spontaneamente un profumo vitale che emana dal tuo corpo, parlandomi con gli occhi, usando silenziose parole di ciglia che non riuscirò mai a scrivere su un foglio di carta.

E poi, insieme, andremo a chiudere quella finestra.