mercoledì 28 settembre 2011

La riserva di sorrisi.

A volte sorridiamo di default. Quasi senza accorgercene, all'improvviso, ci sorge sul viso una smorfia di gioia di cui davvero non sapremmo spiegare l'origine o il motivo. Può essere che in quel momento stiamo facendo tutto fuorché qualcosa di veramente allegro, eppure accade. Come quando su un tram, alla vista di un bimbo in un passeggino che gioca con la prima cosa che gli capita a tiro e sorride dimenandosi, tutti i passeggeri sorridono nella sua direzione. E poi magari, appena il bebè li saluta aprendo e chiudendo la manina, con un gesto tipico da nonno (è strano, ma nonni e bambini salutano allo stesso modo, sputacchiando pure), loro fanno finta di non vederlo e non ricambiano nemmeno con un cenno del capo.

Credo che ognuno di noi abbia una sorta di riserva di sorrisi, che il corpo fatica a trattenere quando sono così tanti da riempirla, perché essi vengono prodotti con continuità e non sempre vengono dispensati con la stessa frequenza. E dunque li lascia andare, quando non ce la fa più, e loro esplodono nei momenti meno opportuni. Ad esempio in chiesa durante un funerale, oppure mentre qualcuno ci sta facendo un discorso serio e noi vorremmo anche rispondergli in maniera altrettanto seria, ma sul più bello scoppiamo a ridere senza ragione, alle lacrime, appena guardiamo il nostro interlocutore negli occhi per fargli capire con chi avrebbe dovuto avere a che fare.

Il trucco sta allora nel saper dosare questa energia a trentadue denti, questa eruzione di felicità che sale dalle viscere dell'anima e si sprigiona nel cielo sotto forma di risate, lasciando qua e là tappeti di cenere di coriandoli colorati e riflessi arcobaleno negli occhi di chi ha la fortuna di trovarsi lì in quel preciso momento. Perché un sorriso si condivide, si scambia, si confronta con quello degli altri. Per formare un coro che, per lo più in silenzio, canterà per sempre l'inno della vita, in cui vortica chi si lascia andare ed esprime al massimo la gioia di godere della bellezza che, a conti fatti, è l'unica certezza immortale che abbiamo.

Ora capisco tante cose. Capisco perché, quando sorridi, perdo l'equilibrio, per un istante: è il mondo che si rimette a girare nel verso giusto. Capisco perché, quando sorridi, spariscono le nuvole dal cielo: è il sipario della volta celeste che si apre, col sole che fa capolino per vedere chi gli ha rubato la scena. Capisco perché, quando sorridi, c'è silenzio intorno a te: è la natura che ti osserva in estasi e non vuole essere svegliata.

Quando sorridi, sorrido pure io. Ma questo non riesco ancora a capirlo.

Credo che c'entri qualcosa il concetto di felicità.

venerdì 23 settembre 2011

Il mio primo ricordo.

Il mio primo ricordo sei tu. L'immagine di un viso che mi guarda mentre faccio finta di dormire su una spiaggia. In realtà socchiudo gli occhi per godere della vista di te su un tappeto di stelle, mentre mi accarezzi e mi sussurri parole che posso comprendere solo io, intervallate da silenzi rotti unicamente dal rumore delle onde del mare che ci fanno da coro discreto.

Il mio primo ricordo sei tu. Mentre parliamo seduti a un tavolino, in un cortile segreto, dicendoci tutto e niente, spesso guardandoci e basta, ridendo di cuore e ignorando tutti gli altri intorno, felici e rumorosi, belli come due fuochi d'artificio, che la gente vuole vedere sempre più da vicino nonostante i botti fragorosi.

Il mio primo ricordo sei tu. Su un dondolo che sembrava sapere già tutto, sospeso in attesa dell'istante in cui avremmo conosciuto le nostre labbra, per prendere le misure di un bacio perfetto. Se le cose sapessero parlare, di certo non ci direbbero ciò che è successo ma ciò che succederà, perché sanno prevederlo.

Il mio primo ricordo sei tu. Che ti divertivi a prendere in giro chi ci aveva visto giusto e ci faceva sedere vicini ancor prima che poi scegliessimo noi di farlo. Una sarta che ci aveva cucito l'uno con l'altra, con un filo di cotone profumato che poco dopo abbiamo scoperto insieme di possedere veramente.

Il mio primo ricordo sei tu. Con quei gesti che ci scambiavamo di nascosto, giocando ad un nascondino fatto di abbracci, nel quale chi trova l'altro non scappa via ma resta con lui. Attimi rubati al mondo che ci guardava distratto e sornione, come di chi sa qualcosa ma non vuole dirlo a nessuno, un pò per ripicca e un pò per noia.

Il mio primo ricordo sei tu. E te lo racconto ogni sera, prima di dormire. Per far sì che esso si formi nel nostro mondo di pensieri notturni, luogo magico nel quale ci incontriamo ogni volta che chiudiamo gli occhi. E dove ridiamo insieme di quello che ci è successo di giorno, avendo ormai capito che non ci basta più credere nella realtà, ora che abbiamo scoperto i sogni.

sabato 17 settembre 2011

Fate come i due liocorni.

Ogni tanto mi ritorna in mente quell'insulsa canzoncina che ci veniva cantata e che cantavamo da bambini e che metteva insieme un'accozzaglia di animali presi a casaccio - due coccodrilli, un orango - tango, due piccoli serpenti, un'aquila reale, un gatto, un topo e un elefante - e che, ignorando inspiegabilmente tutto il resto della fauna mondiale (che sentitamente ringraziava), affermava, con un piglio da Piero Angela, che "non manca più nessuno", se non fosse stato per quegli asociali dei due liocorni che "non si vedono".

Io ricollego questo tedio canoro a quelle festicciole in cui decine e decine di marmocchi (io di solito me ne stavo per i fatti miei, in verità), dopo aver devastato i salotti di innocenti case messi inopinatamente in ordine dalle famiglie ospitanti prima della calata di quei piccoli Unni (lavoro totalmente inutile: che fosse stato il palazzo reale o un trogolo non sarebbe cambiato nulla per quella marmaglia), venivano messi in riga da animatori poco animati e necessitanti di una rianimazione a fine pomeriggio, per cantare tutti insieme una serie di canzonette ridicole come questa. Che veniva sapientemente inserita al momento clou di quell'aborto di ballo di gruppo, in quanto hit intramontabile e di sicuro coinvolgimento, utile inoltre a dare il tempo agli stravolti genitori di sparecchiare la tavola dai panini al burro col salame e dalle patatine, per prepararla all'avvento della torta ("Questa è l'ultima: la prossima festa sarà quella dei 18 anni!". Le ultime parole famose.).

Al momento della kermesse canora, venivo dunque estratto dal cunicolo che mi ero saggiamente scavato per starmene tranquillo, per essere catapultato in quella simpatica baldoria. E' stato in quelle occasioni che ho scoperto il play back. Muovevo la bocca tipo pesce e il corpo come una marionetta, lasciandomi trascinare da quella folla di nani urlante e festante e sperando che il tutto finisse al più presto, magari con un colpo di scena (per esempio, con la caduta di un bambino e lacrime conseguenti) o con una mia fuga strategica.

Comunque sia, appena arrivava puntuale la canzoncina di cui sopra, evitando accuratamente di fare le mosse per imitare gli animali in oggetto, preferivo immaginarmeli. Non so voi, ma io vedevo due coccodrilli chissà perché in piedi e con la bocca sempre spalancata, evidentemente colpiti da una paresi facciale; un vecchio orango - tango rincoglionito, spelacchiato e incontinente; due piccoli serpenti, certo più simili a patetiche bisce che ad altro; un'aquila reale perennemente appollaiata e dormiente, che poteva essere benissimo un grosso piccione; e infine quel trio meraviglioso costituito dal gatto, dal topo e dall'elefante, con quest'ultimo che, forse per l'accostamento con due animali di taglia piccola, veniva da me immaginato piccolo in egual modo, delle dimensioni di un cane per intenderci, che in confronto Dumbo era già un gigante.

Se oggi penso a quella canzone, naturalmente, in prima battuta, sorrido. Poi però ci rifletto e mi rendo conto che rispecchia perfettamente la società di oggi, con la gente che cerca in ogni modo di diventare qualcuno, ispirandosi a modelli esterni che vengono portati sul palmo della mano e idolatrati, senza che in realtà abbiano un merito ben preciso, collezionando piuttosto, e a ben guardare, più demeriti che altro. E meritando, in effetti, di essere canzonati da un coro di bambini.

C'è chi vuole diventare come uno dei due coccodrilli, spietato e in combutta con qualcuno più stronzo di lui, pronto a sottrargli la preda per farlo morire di fame; chi invece preferisce accomodarsi in un luogo tranquillo e al riparo dal mondo, masticando per tutto il giorno quello che la natura gli offre e senza muovere un dito, nemmeno per ringraziare, come l'orango - tango; chi ha pensato bene di strisciare via e scappare dalle difficoltà di ogni giorno, avvinghiandosi intorno a tronchi di ulivo che prima o poi verranno colpiti da un fulmine, proprio come i due piccoli serpenti; c'è chi crede che stare in alto come l'aquila reale voglia dire comandare ed avere potere, ma non riesce a vedere cosa accade sulla terra, nella realtà di ogni giorno, finendo per vivere nel suo cielo di sogni; e chi, infine, si mette in società, come il gatto, il topo e l'elefante, in quel trilatero circolo vizioso in cui ognuno ha paura dell'altro e vive nella continua tensione di guardarsi le spalle, ignorando di fatto il futuro.

Ecco, bisognerebbe prendere come esempio i due liocorni. Che "non si vedono" perché, in realtà, non si vogliono far vedere. Lasciano che siano gli altri animali a farsi mettere alla berlina ogni santa volta che parte la canzoncina e si nascondono in qualche anfratto della foresta per costruire da sè il proprio futuro, trombando nelle pause e ridendo alle loro spalle.

Ecco perché, se ci pensate, nessuno, in effetti, ha mai visto un liocorno.

giovedì 15 settembre 2011

Ho preso una valigia.

Ho preso una valigia. E ho iniziato riempirla.

Ho messo innanzitutto una treccia di capelli dorati come spighe di grano, che casca sulla spalla e sul petto dal lato del cuore, come quella di una bambina che ti osserva con lo sguardo di chi, nonostante i rimproveri, non ha mai smesso di giocare.

Poi ho messo un paio di occhi, con iridi azzurri come il cielo o verdi come erba appena tagliata, che cambiano colore a seconda dei giorni o del caso, fatti per circondare una pupilla a forma di raggi solari, un girasole in primo piano, visto dal basso in alto, che si staglia bellissimo verso quel cielo o verso quel prato.

Ho proseguito con un paio di labbra morbide, che sanno di cioccolato al latte e formano il contorno di sorrisi accesi o espressioni incantate di chi ha ancora la capacità di meravigliarsi.

Ho sistemato con cura due guance che arrossiscono al primo sole d'estate o alla prima occasione in cui mostrare con orgoglio la propria timidezza. E un naso perfetto, che dà a quel profilo il tocco di grazia, silhouette in controluce che rende quel viso inconfondibile.

Ho messo mani affusolate, che sanno spegnere incendi senza acqua, ma con una semplice carezza. E braccia che regalano abbracci improvvisi e spontanei, come fiori cresciuti tra i gradini di una chiesa. E gambe che, attraverso i piedi, si muovono sinuose e vitali, femmine vanitose che si accavallano sensuali, quasi per scherzo.

Ho continuato con un corpo candido come la neve, formoso come le onde del mare, piccolo come una conchiglia stretta in una mano, soffice come le nuvole, profumato come foglie di limone, caldo come una brioche appena sfornata.

Infine, ho messo un piccolo scrigno di legno e ti ho detto che dentro ci avrei custodito il tempo. E che tu, una volta aperta la scatola, non avresti potuto afferrarne il contenuto con le mani. Per il semplice fatto che lo scrigno sarebbe stato vuoto. Perché il tempo, in fondo, non esiste.

Ho preso una valigia. E ci ho messo te.

martedì 6 settembre 2011

L'arte di sapersi ripetere.

Senza che ce ne rendiamo davvero conto, la nostra vita è un continuo ripetersi.

Tendiamo, cioè, a riproporre nel presente situazioni vissute di cui non possiamo fare a meno, il più delle volte fallendo clamorosamente nel nostro intento, finendo per ricreare patetiche imitazioni del passato che non fanno nemmeno ridere. Il tutto perché, indubbiamente, un fiore è più luminoso quando lo si coglie da un campo dove cresce spontaneo sotto i raggi del sole, piuttosto che da un vaso di terracotta tenuto in casa dal quale gli unici raggi che può vedere sono quelli d'acqua di un annaffiatoio.

Ci definiamo originali, mentre invece commettiamo ogni giorno il più squallido dei plagi, ossia quello di copiare noi stessi. Echi senza voce e senza forma, convinti di essere una melodia suonata dal vento fra gli alberi di quella montagna che riflette e ripete ogni cosa meccanicamente, come una moglie che fa l'amore col marito solo per fargli un regalo di compleanno.

Applaudiamo entusiasti per il solo fine di richiedere il bis. Perché davvero più di così non pensiamo sia possibile ottenere da quell'esibizione. Eppure, nonostante le richieste a gran voce, l'artista, che è andato dietro le quinte, non uscirà più sul palco. E si accenderanno le luci in sala, abbagliando gli astanti ancora emozionati, come i fari di una macchina in faccia a un coniglio che attraversa la strada di notte e resta impalato dinanzi a quella visione celestiale. O almeno così crediamo che sia, non conoscendo come sia fatto il paradiso dei conigli.

In verità, se per un attimo riuscissimo a guardare oltre la nostra faccia riflessa nello specchio - cioè ci specchiassimo non solo per abbellirci il viso per piacere agli altri prima ancora che a noi stessi, come tristi clown dal trucco sfocato non perché stanno piangendo - ecco, se riuscissimo a guardare anche lo sfondo dietro di noi, allora le cose cambierebbero.

Non è da tutti ignorare ciò che si vede in primo piano, soprattutto se siamo noi stessi i protagonisti di quel ritratto, realizzato da un autore anonimo ma comunque famoso, essendo esposto e citato nei musei di tutto il mondo e nelle nostre case, sebbene non se ne conosca, in effetti, neppure il nome. Saremmo finalmente consapevoli della realtà e della nostra modestia. E della nostra piccolezza umana, che ci porta continuamente a voler ripetere gesti e a rivivere momenti, perché semplicemente ci hanno fatto bene, pezzuole che puliscono le nostre lenti che si sporcano mentre guardiamo il mondo.

E a quel punto diventeremo tutti artisti della ripetizione, pittori che dipingono con puntini identici tra loro, ma che nel complesso e a lungo andare formano un quadro incredibile, un paesaggio bellissimo che cambia di continuo. Pittori che relegheranno il proprio autoritratto in una parte del dipinto che non è più il primo piano, perché hanno scoperto quello che c'è dietro. E lo vogliono ripetere, seppure solo sulla tela.

Io mi ripeto, è vero, perché seguo l'ispirazione. Anche lei, infatti, ha dei precisi punti di riferimento e scatta ogni qual volta li avverte o li vuole avvertire. Io mi fido e, in base a quello che mi sussurra, mi metto a scrivere. E sto bene.

Poi ci sarà qualcuno che mi applaudirà e vorrà il bis.

giovedì 1 settembre 2011

Uno settembre.

L'uno settembre è probabilmente il giorno più brutto dell'anno. E' l'inizio e la fine insieme, terribile ossimoro che crea incertezza di stati d'animo. L'inizio di un mese e la fine di una stagione, alla faccia dei solstizi e degli equinozi, giorni di confine già di per sè impronunciabili.

Tutto intorno si fa più scuro. La luce accecante dell'estate, che ha raggiunto il culmine nel mese di agosto, piano piano si offusca. Come se qualcuno, con un telecomando, abbia deciso di diminuire la luminosità dell'immagine di quella trasmissione senza pubblicità che è la vita. Oppure come un velo di cenere che un'eruzione vulcanica ha depositato su ogni cosa, così da riportarci a terra, dopo che abbiamo intrapreso la scalata di quel vulcano raggiungendone la cima sotto un sole caldo e sorridente, a piedi nudi per la fretta di arrivare prima degli altri.

I colori tendono dunque al grigio, ma non quel grigio brutto che ispira tristezza. Piuttosto, è un colore di chiusura, serio e austero, malinconico al punto giusto, rassicurante come la mano di un padre che si posa sulla testa del figlio e lo consola, se per un momento una lacrima dovesse rigargli il viso, accanto alle gocce d'acqua di piogge rinfrescanti che si riaffacciano sul mondo, anche loro in punta di piedi, morbide e discrete.

Si svuotano le strade, le spiagge, i cuori. Si riempiono però gli occhi, di ricordi recenti che forse ancora non sono catalogabili come ricordi, perché i concetti di ieri o avant'ieri non sono conciliabili con il passato, bensì assomigliano piuttosto a un presente con qualche ruga, ma ancora affascinante, tantè che lo si racconta di continuo, tra amici e parenti, per celebrarne la bellezza, con dovizia di particolari e di sorrisi.

Penso a tutto questo quando l'uno settembre percorro in macchina il tragitto che per poche altre volte, quest'anno, mi porterà da casa al mare e viceversa. Quel mare che alle otto di sera è ancora caldo e si colora di rosso perché sullo sfondo il sole sta tramontando, impaziente di lasciare il posto alla luna, che in realtà è già piazzata lì, a forma di falcetto, come un ghigno sinuoso, sottile e beffardo. Come un ciglio caduto dall'occhio del cielo.

Perché anche il cielo saluta l'estate. E chiude gli occhi per la goduria di chi ne assapora gli ultimi istanti.