martedì 30 agosto 2011

Tutti per uno, dove l'uno sono io.

Mi piace stare con la gente. Ci ho provato ad abbracciare la solitudine, a darle una possibilità, a guardarla negli occhi invece di far finta, ogni volta, di non averla vista. Ma non ce l'ho fatta. Alla fine, dopo averla presa per mano e baciata sulle labbra, le ho sempre voltato le spalle e ho cercato la gente, il calore umano, la confusione di braccia, teste e gambe, per coprirmi con trapunte di corpi, per riscaldarmi dentro, a prescindere dalla temperatura esterna.

Io non credo a chi dice che la maggior parte delle volte è meglio restare un pò da soli. Che è sufficiente la compagnia di se stessi. Piuttosto, penso che in quei casi ognuno sia colpito da un eccesso di gente, passatemi la frase. E perciò occorre far tornare quel fiume che ha superato gli argini sotto il livello di guardia. Insomma, è un fatto di necessità e non di scelta.

Ebbene, io amo gli altri: i gruppi improvvisati una sera davanti a un falò o ad un microfono di un karaoke, i compagni di un viaggio organizzato, amici vari in prima fila ad un concerto, persone che si confrontano per risolvere un cruciverba oppure una situazione complicata. Parole, sorrisi, gesti, sguardi, contatti astratti o reali che danno vita a circuiti elettrici che scorrono nella terra e si accendono al passaggio della vita, attraverso lo sfregamento dei piedi.

Tutti per uno, dove l'uno sono io, bisognoso della presenza della gente, della certezza della loro esistenza, un Robinson Crusoe con tutti i giorni della settimana a disposizione, non solo Venerdì. E uno per tutti, dove l'uno sono sempre io, intento a fare qualcosa per ringraziare (per) ogni giorno della settimana.

Non riesco a stare solo. E' un concetto che per me non esiste, come Babbo Natale con le sue renne volanti. Ci ho creduto, è vero. Ma mai così tanto da trasformare in certezza tutto ciò. Certe illusioni possono anche risultare piacevoli. Ma, alla fine, il bisogno di credere in qualcosa di magico si trasforma in bisogno di credere in qualcuno in carne e ossa. E solo quando si riesce ad avvertire questa necessità, si scopre veramente di vivere nel mondo.

Per chi come me, ancora oggi, la notte di Natale si affaccia alla finestra e aspetta che arrivi Babbo Natale su una slitta trainata da renne volanti. E che non rimane più deluso dall'inutile attesa, perché tutti coloro con cui sta aspettando la mezzanotte lo rassicurano sul fatto che Babbo Natale non esiste.

Perché esistono loro.

mercoledì 24 agosto 2011

Occhi.

Occhi che ti guardano. Basterebbe questo, se sono quelli giusti. Per afferrare ciò che altre parti del corpo difficilmente riuscirebbero ad esprimere allo stesso modo. Desiderio, curiosità, malinconia, delusione, sorpresa, felicità. Gli occhi parlano una lingua tutta loro. E ben pochi sono gli interpreti in grado di decifrarla.

Io impazzisco per gli occhi. Mi perdo nei loro tormentati e molteplici stati d'animo. Sto lì in attesa che si aprano, come un bambino davanti alla tv, seduto sul pavimento con le gambe incrociate, che aspetta l'inizio del film che ha già visto milioni di volte. Li osservo con attenzione quando si chiudono, ostriche rosa che nascondono al mondo iridi di perle. Soffro quando piangono, arcobaleni che gocciolano acqua multicolore. Esulto quando ridono, perché vuol dire che la vita ha vinto ancora. Sorrido quando strabuzzano, perché la meraviglia è indice di disincanto.

Viaggio per gli oceani di due occhi blu come un cielo senza nuvole, per le strade infinite di due occhi neri come la pece, per sentieri montuosi di due occhi verdi come foreste vergini, per i deserti di due occhi castani come le foglie d'autunno. Viaggio e puntualmente mi perdo. Avendo appositamente lasciato la bussola a casa.

E ogni tanto mi ricordo di quando, da bambino, mia mamma avvicinava il suo volto al mio e, toccando la punta del mio naso con la punta del suo, mi faceva giocare a vedere un solo occhio. Due occhi in due, ciclopi per scherzo. Rimanevo incantato per pochi istanti, anche perché, sforzandomi a lungo in quell'esperimento, mi si stancava la vista. Però quel che vedevo in quegli attimi era qualcosa di straordinario: avvertivo la potenza di due occhi in uno, un unico fuoco divampante di un colore accesissimo e senza alcun battito di ciglia.

Ogni tanto penso a come sarebbe la mia vita senza gli occhi. La risposta è che non sarebbe. Chi ha gli occhi per vedere ha la fortuna di godere quotidianamente del mondo e la possibilità di trovare un riscontro reale a ciò che ha sempre immaginato di giorno o sognato di notte.

Io, più semplicemente, utilizzo gli occhi per vedere altri occhi. Per comprendere il mondo attraverso la sua immagine riflessa in quei due specchi dell'anima. Protetta da quegli scrigni intermittenti che si chiamano palpebre.

Che permettono di conservare intatto il ricordo del tempo. E con esso, il segreto della vita.

lunedì 22 agosto 2011

Foto per me.

Io non sono un grande fotografo. Mi piace la fotografia in genere, soprattutto il suo ormai superato esito cartaceo, testimonianza del miracolo di riuscire a fermare per sempre il tempo con un banale tocco dell'indice. Il destino, però, mi ha messo in mano una buona macchina fotografica, in testa la solita curiosità di imparare cose nuove e accanto un amico fraterno che, con molta pazienza, mi sta spiegando in che direzione instradare questa mia curiosità, ricordandomi sempre di ricordare "com'è difficile trovare l'alba dentro l'imbrunire". Soprattutto con una macchina fotografica.

Mi sono accorto, giorno dopo giorno, che molte volte per scattare una bella foto occorre voltarsi all'improvviso, invertire il senso di marcia rispetto alla folla o alla gente che sta camminando con te, sorprendere il flusso del tempo e delle giornate cambiandone lo sviluppo naturale. Bisogna, cioè, sopperire all'assenza degli occhi sulla nuca, dirigendo lo sguardo alle proprie spalle. Si aprirà un mondo nuovo, sebbene sia, in fondo, la stessa realtà in cui fino a pochi secondi prima stavi normalmente muovendoti, però in direzione opposta. E' anche una questione di punti di vista, che sono poi quelli che ci fregano, il più delle volte.

E' il concetto del guardarsi indietro quello che sintetizza tutto ciò. D'altronde, ogni singola foto, una volta scattata, è già passato. Una foto è come minimo coniugata al passato prossimo, nasce vecchia, disconosce totalmente il presente. Tutt'al più si proietta nel futuro, sperando di essere ancora all'altezza anche negli anni a venire, data l'impossibilità oggettiva di modificarsi e cambiare seguendo l'evoluzione dei tempi. Anche la foto, come i suoi protagonisti, si mette in posa. Aspetta, cioè, di essere ripresa in mano da qualcuno, di essere colta come un frutto, quando è matura per l'occasione. E sta a noi, in questi casi, non lasciarla marcire o invadere dai vermi.

Credo allora che sia proprio la mia sconsiderata inclinazione a guardarmi indietro nel tempo a farmi amare la fotografia. Perché è in effetti l'unico mezzo per rendere reale questo orribile lato del mio carattere, assecondando il mio sadico desiderio di rivivere il passato più doloroso che ho con un semplice click. Sfogliando le pagine di enormi album fotografici, tutti pazientemente creati e conservati nella mia mente. Foto che vorrei regalare, se non fosse che so per certo che non sarebbero un regalo gradito.

Per chi come me sta sempre dietro l'obiettivo, ogni volta desiderando ardentemente di trovarsi dall'altra parte.

domenica 21 agosto 2011

La mia città.

Messina è la mia città, su questo non ci piove. E meno male, perché ogni volta che piove magicamente si creano ingorghi dal nulla e la gente alla guida impazzisce. Oppure l'acqua si insinua nei torrenti vuoti sotto le strade e quando li riempie tutti sgorga fuori dall'asfalto, formando simpatiche fontanelle simili a sorgive. E a quel punto il messinese rimpiange la siccità, rivendicando il proprio diritto ad ammirare deserti e a possedere dromedari, data la vicinanza con l'Africa. Senonché, nei periodi più caldi dell'anno, ecco che all'improvviso egli sente il bisogno della pioggia. Così, tanto per scacciare quell'afa terribile.

Insomma, siamo una continua contraddizione. Un paradosso all'infinito. Abbiamo voluto (anzi, rivoluto) il tram per spostarci nel centro cittadino ed evitare le code con la macchina o quelle alle fermate degli autobus, più rari di un cestino della spazzatura sui Colli San Rizzo. E alla fine, dopo anni e anni di lavori (ovviamente in ritardo rispetto alle previsioni), a parte macroscopici errori di progettazione - si pensi all'acqua piovana che ristagna in inspiegabili conche lungo i binari - o stranissime pensiline con la copertura a listelli - che, anziché riparare durante l'attesa, canalizzano la pioggia e il vento sul cervelletto del malcapitato di turno - il percorso del tram è stato deviato dalle vie del centro, perché rischiava di compromettere una processione cittadina che si svolge una (dicasi una!) volta l'anno, ossia la Vara.

Ecco, appunto, prendiamo la Vara, simbolo del paradosso per eccellenza: i fedeli che tirano le corde del carro votivo all'urlo di Viva Maria, per poi bestemmiare durante il tragitto per la fatica e lo sforzo. In un miscuglio di sacro e blasfemo, devoto e profano, tipico delle manifestazioni religiose della nostra isola.

E poi ci sono le macchine ferme in doppia fila davanti a parcheggi vuoti, quasi in segno di rispetto per lo straordinario evento rappresentato da un posto vacante lungo la strada o forse al solo fine di ammirare le strisce blu solitamente celate da ingorde ruote che ne disprezzano la geometria quasi perfetta. Oppure, la spazzatura che gironzola per la città tra l'indifferenza generale, evidenziandosi ancor di più non tanto il problema del fare pulizia, quanto invece quello di mantenere la pulizia stessa. E ciò in quanto il messinese è campione olimpico di lancio del rifiuto dall'auto o dalla finestra, in esecuzione di quella disgustosa usanza tutta nostra per cui il proprio orticello è lindo come il culo di un bambino, mentre le cose comuni sono luride come il bagno di un'area di servizio sulla Sa-Rc. Anche perché, come direbbe un messinese all'esito di una riflessione accurata sul punto, "sono stati gli altri a sporcare e poi c'è gente pagata per pulire le strade".

Per questi motivi, ogni tanto, non la sopporto proprio questa città. Poi, però, vedo il mare. Che, nonostante tutto, continua a circondarci placido, incazzandosi qualche volta, ma comunque difendendoci dalla terra ferma. Ricalcando di blu i contorni della nostra isola, partendo proprio dalla punta più vicina al resto del mondo, ossia da Messina. Che quindi è sempre stata l'inizio del quadro, il primo puntino di colore di quel meraviglioso dipinto che è la Sicilia.

Perché è facile giudicare una tela quando l'artista finisce di dipingerla. Ma è impossibile indovinare da quale punto ha iniziato. Noi messinesi, per il semplice fatto di essere nati in quest'angolo di mondo - cullati fin da piccoli dalle onde del mare, riscaldati e colorati dai generosi raggi del sole, protetti dalle spine dei fichi d'India - la risposta a questa domanda ce l'abbiamo dentro.

E per fortuna, ancora, non ce ne siamo resi conto.







mercoledì 10 agosto 2011

Volare col vento.

Vento di maestrale. Ieri era grecale. Stamattina libeccio, o almeno così sembrava, perché, come dice sempre mio padre, "se non capisci che vento è, allora è libeccio". La rosa dei venti che turbina e si agita tra le mani di non so chi, che evidentemente è innamorato di una donna e, seduto su una nuvola, studia le probabilità di successo di quel tormentato amore sfogliando e staccando i petali di quella rosa al ritmo del più classico dei "m'ama o non m'ama". E ad ogni petalo che cade nel vuoto, sparisce il corrispondente vento e si fa strada quello successivo, secondo un ordine prestabilito che, come mi ha insegnato mio nonno che adesso i venti li guarda e li ascolta da dove essi hanno origine, risponde al nome del musicale acronimo "gre-sci-li-ma".

Lo spettacolo del tempo che corregge il suo stato d'animo per non contraddire il vento e andare d'accordo con lui. L'afa che si innalza nel cielo quando spira lo scirocco, il vento della terra, della sabbia; il cielo pulito dalle nuvole e di un azzurro intensissimo quando è spirato il grecale, il vento di bel tempo; il mare mosso e scosso quando soffia il greve e grave maestrale; l'aria indecisa e le nuvole che bussano alla porta quando arriva il libeccio. Starei un intero giorno a guardare tutta questa bellezza, a osservare la potenza della natura che, con uno schiocco di dita, è in grado di sconvolgere tutto e subito dopo di riportare la calma su quel tutto tremante e sudato.

Per questo penso che sia il vento il vero signore silenzioso del mondo. Un portentoso soffio di vita che ci spinge verso mete ignote: basta lasciarsi trasportare, come fanno gli uccelli quando fingono di volare, ma in realtà aprono le ali solo per beccare la corrente giusta e, tenendole immobili, arrivare a destinazione. E sarebbe sbagliato fermarsi davanti all'apparenza che ci induce a credere che noi le ali non le abbiamo e mai potremo averle. In verità, noi non le abbiamo incorporate come gli uccelli, ma possiamo crearle dal nulla e indossarle all'occorrenza, ad esempio leggendo un libro, oppure sognando di notte, oppure ancora semplicemente amando qualcuno.

A quel punto, quando esse magicamente saranno apparse di fianco a te e tu le avrai poggiate sulle tue spalle, sorpreso del fatto che siano della misura giusta al primo tentativo, allora non resterà che affacciarsi alla finestra e attendere il vento giusto. E quando arriverà, e lo saprai solo tu, ti porterà con sè e finalmente sarai in volo e potrai fare l'occhiolino ai gabbiani che ti volano accanto. Avvolto da quella brezza che, vista dall'alto, è veramente tutta un'altra cosa.

E profuma delle pagine del libro che stavi leggendo o del letto in cui stavi dormendo. O della donna che ami. E basterà una sola occhiata per riconoscerla dall'alto, tra la gente. Ognuno è un puntino visto da lassù, ma lei è quello che, ai tuoi occhi, brilla come e più di una stella. La saluterai agitando goffamente un'ala e quando tornerai a terra e le ali saranno sparite lei ti correrà incontro e ti abbraccerà sorridendo.

E accarezzandoti, tra i tuoi capelli o sulle tue spalle, troverà una piuma.

"La vertigine non è paura di cadere, ma voglia di volare".

lunedì 8 agosto 2011

La bellezza di chi si arrangia.

Aiutati, che Dio ti aiuta. Arrangiati, che qualche cosa succederà. Anche se è molto più facile farlo con le persone giuste accanto. Per sentire il loro calore e usarlo come carburante per viaggi interstellari. Ognuno di noi, infatti, è un fiammifero che sogna di diventare un fuoco d'artificio. Se acceso sprigiona calore, appunto. Ed emana una luce che, seppur fioca, unita alle altre forma un paesaggio bellissimo, se visto dall'alto e al buio di una notte stellata. Le stelle, infatti, altro non sono che la proiezione in cielo di noi fiammiferi a forma di essere umano. E ci invidiano da morire, perché non possono avvicinarsi tra loro più di quanto lo siano già, così da poter sentire a vicenda il proprio calore. Per questo hanno bisogno del sole che di giorno riscalda la culla celeste dove esse riposano ogni notte, sotto lo sguardo vigile della luna.

Non dobbiamo dunque buttare via questa fortuna. Non dobbiamo, cioè, lasciare che qualcuno o qualcosa ci spenga. Piuttosto, il primo alito di vento deve essere l'occasione per alzare la testa e mostrare la nostra piccola fiammella testarda e orgogliosa al mondo intero. Stringendo la mano di chi ci sta accanto per mantenere la fiamma accesa per mezzo del suo calore generoso. Di chi, cioè, ci sta accanto non per caso.

Mi arrangio. E in questo sta tutta la bellezza. Quella bellezza che si manifesta all'improvviso, altrimenti non sarebbe la stessa cosa, perché te l'aspetteresti. E invece è come girare la curva e vedere un panorama mozzafiato che non avresti mai immaginato di incontrare dopo quella lunga e tortuosa strada tra le montagne, che tra l'altro stai ancora percorrendo. Ma le montagne ti hanno fatto questo regalo, abbassando per un attimo la testa per mostrare al mondo ciò che gelosamente tengono nascosto da quando il mondo stesso altro non era che un bimbo in fasce in braccio a Dio.

Chi si arrangia coglie questa bellezza. Perché si lascia cullare dagli eventi, consapevole del fatto che essi non capitano mai senza una ragione. E quindi non resta che arrangiarsi affinché, così facendo, si possa entrare in quel flusso di vita senza disturbare, riuscendo a godere ugualmente della sua potenza primigenia. E soprattutto, come detto, del modo inaspettato in cui essa si manifesta. Per esempio, la bellezza che ti coglie quando ti volti verso il mare e scorgi nella folla in acqua una coppia di anziani che giocano a palla, ridendo e divertendosi come bambini. E lo sarebbero veramente, se non avessero sulle spalle qualche acciacco di troppo, sul viso qualche ruga in più e nel cuore tutto l'amore che ogni giorno, da anni, si scambiano a vicenda come se fosse la prima volta.

Oppure è la bellezza di quando riesci a capirti con chi parla una lingua incomprensibile e trova altrettanto incomprensibile la tua. Bastano alcuni gesti, qualche sguardo, tanto sorrisi e molta luce, soprattutto dentro di te. Per ridere delle naturali incomprensioni e costruire su quella risata un robusto scaffale in cui archiviare, tra gli altri, anche quel libro di ricordi che stai giust'appunto scrivendo in quel momento.

Perché, in fondo, anche la nostra presenza in questo mondo troppo tondo è un continuo arrangiarsi per non cadere. E se riesci a capire che proprio in questo sta il succo del frutto della vita, allora potrai berlo tutto fino all'ultima goccia, lasciando che te ne scorra un pò sul muso e sui vestiti. E asciugandoti con quello che capita. Arrangiandoti, appunto.

Perché non puoi perdere tempo, quando avrai visto la bellezza. Perché a quel punto ci sarà troppo da vivere.