giovedì 28 luglio 2011

Confuso.

Sono confuso. Lo sono sempre stato, in realtà. Solo che adesso me ne rendo davvero conto. Prima, infatti, pur non facendoci caso, quando gli altri me lo facevano notare, un pò ci rimanevo male, tant'è che finivo per autoaccusarmi di un'immaturità che, a ben pensarci, per l'età che avevo, era già di suo un gesto di precoce maturità. Adesso, invece, il fatto di essere confuso mi piace da morire. E' una sensazione strana, un pò come quando, per intenderci, sei davanti ad un tris di primi e non sai da dove cominciare. L'enormità del tutto, o per lo meno del tutto ciò che è disponibile, rende incapaci di pensare, imbambolando chiunque sull'orlo del pentolone delle possibilità.

E sebbene la confusione sia decisamente la situazione meno indicata per sentirsi sicuri del domani, io, invece, ravviso in essa una sorta di pacifica pienezza che mi tranquillizza, essendo tutte le carte ancora nel mazzo e tutti i giocatori ancora fermi al proprio posto con lo stesso numero di fiches. Ecco, la confusione, pur rendendomi ancora più cervellotico, mi appaga al tempo stesso. Anzi, mi spinge a provare nuove esperienze e a cercare altre vie, per poi percorrerle e, eventualmente, tornare indietro. Sento il bisogno di mettermi in gioco, di sedermi a quel tavolo e scambiare un pò di fiches pure io. Forte della certezza di non avere certezze.

E'assurdo tutto questo. Poi, per uno come me che pianifica ogni minima cosa, è addirittura preoccupante. Però, con molta onestà, mi sono riscoperto incapace di pianificare le grandi cose. Sono uno sputo nel mondo, non posso pretendere di ordinare anche il mio futuro. Perciò, lo voglio sfruttare così com'è, ossia disordinato, caotico, nebuloso e, appunto, confuso. Come me. Che non so giocare a carte.

E quindi, un passo alla volta. Una esperienza alla volta. Una carta alla volta. Subendo, porgendo l'altra guancia, ma poi reagendo quando le guance sono finite. Sbattendo contro muri reali e immaginari e, a volte, trovando un modo per scavalcarli. Zoppicando con lo zoppo o correndo per surclassarlo. Con l'indice e il medio alzati come simbolo di vittoria, oppure in gola per vomitare. Amando chi voglio amare e odiando chi me lo impedisce. Tuffandomi nel vuoto e, durante la discesa verso l'ignoto, non pensando a quello che potrà esserci sott'acqua ma a come asciugarmi una volta uscito.

E poi mi potrò sedere sul bordo di quell'enorme specchio d'acqua, con i piedi penzoloni, ridendo di ciò che prima temevo, e mi metterò a pescare. E sono sicuro che, pur non avendo mai pescato in vita mia, la preda abboccherà subito. Con un ultimo strattone, sia fisico che mentale, mi renderò infatti conto di aver appena tirato a riva proprio quella carta con cui vincerò la partita. E io, col frutto della mia vincita in mano, salutando i miei compagni di viaggio, mi alzerò da quel tavolo da gioco. E siederò in quello successivo.

Questa volta, però, prenderò posto accanto alla confusione. Così le potrò guardare le carte.

mercoledì 27 luglio 2011

Il futuro.

C'è chi si chiede quale sarà il proprio futuro. Io, invece, mi domando cosa sia il futuro. Anche perché, se ci fate caso, il solo fatto di pensare al futuro rappresenta una contraddizione in termini. Il verbo "pensare", infatti, si modella sul passato, su qualcosa di cui, in un modo o nell'altro, si ha una certa cognizione, magari incompleta, ma dai contorni abbastanza netti. E dunque la si può pensare. Invece, il futuro è per definizione un'incognita e non si può pensare ad un'incognita, al massimo ci si può impegnare a risolverla, a darle un valore, una forma, un significato. E perché no, trasformarla in certezza. Ma a quel punto non è più futuro, perché, senza rendersene conto, mentre si cerca di venir fuori da quell'equazione apparentemente irrisolvibile, ci si ritrova catapultati nel presente.

E perciò al futuro non si può pensare, giacché vorrebbe dire essere come minimo veggenti. Io ritengo che, invece, il futuro lo si possa solo immaginare. Come se avessimo in mano i pezzi angolari di un puzzle e dovessimo costruire e poi incastrare i restanti pezzi centrali solo con la nostra abilità di inventori del domani.

Oppure si può immaginare il futuro guardando l'orizzonte attraverso un bicchiere d'acqua, per giocare a capire quale sia il suo aspetto, sfruttando i suggerimenti delle nuvole che, spostate e sovrapposte dal vento, assumono le forme più disparate. Che avranno un nome diverso a seconda se quel bicchiere lo si intenda mezzo pieno o mezzo vuoto.

Sul muro di fronte alla mia scrivania ho attaccato, senza un ordine preciso, alcuni ritagli di giornale che contengono frasi riguardanti il futuro. Non so perché l'ho fatto. Le ho lette la prima volta e, ancor prima di capirle, già pensavo a fissarle in un punto che mi fornisse la possibilità di tenerle sempre d'occhio. Di sbirciarle quando ne avrei avuto voglia o bisogno. Per ricordarmi non tanto dove andrò, quanto piuttosto come ci arriverò.

Il futuro fa paura, perché fa paura prendere una decisione che cominci a dare una forma a quel futuro. Credo, però, che questo sia un modo sbagliato di approcciare il problema. E' chiaro che non basta girare il calendario prima del tempo o portare avanti l'orologio all'improvviso, non è sufficiente posticipare una sveglia che è suonata troppo presto o sfogliare il libro che si sta leggendo o studiando per vedere quante pagine mancano. E men che meno, come dice il proverbio, è corretto rimandare a domani quello che si potrebbe fare oggi. Questi sono tutti escamotages, illusioni di futuro che servono solo a farsi del male. Tentativi maldestri di correre più veloce del tempo, credendo di andare dritto mentre invece si sta correndo in verticale, affondando nelle sabbie mobili di una tragicommedia di cui si è regista, sceneggiatore e interprete principale.

In realtà, chi prende una decisione importante, senza aver paura di pensare e poi attuare tale decisione, dissipando gli inevitabili dubbi a essa connessi in una chiacchierata con un amico o nel fumo di una sigaretta, il futuro non l'ha ancora superato.

Senza accorgersene, però, gli sta correndo accanto.

Il futuro è nelle mani di chi ha il coraggio e la fortuna di modellare la propria vita a immagine e somiglianza del proprio destino.

martedì 26 luglio 2011

L'idea del viaggio.

Quand'è che si viaggia veramente? Io credo che sia troppo facile collegare il concetto di viaggio ad una settimana trascorsa lontano da casa, magari d'estate. Penso invece che sia l'idea del viaggio in quanto tale a farci crescere davvero le ali, a dispetto di tutti coloro che credono solo negli angeli. Si tratta di brevi momenti, per lo più, in cui ti incanti all'improvviso fantasticando su luoghi lontani o semplicemente ricordandone alcuni che hai già visto in un tempo ormai troppo passato e che per questo necessita di essere attualizzato al più presto, quantomeno in quella parte di cervello che è collegata al cuore.

A volte basta immaginare situazioni e persone nuove in un contesto conosciuto per sentirsi in viaggio. Oppure, ripercorrere uno stesso tragitto per finalità diverse dal solito. E' una questione di geografia dell'anima che, come un mappamondo, gira a tutta velocità attorno all'asse del tuo corpo e ogni tanto si sofferma su un luogo, mostrandone i contorni in modo nitido e pieno, anche e soprattutto se quel posto non l'hai mai visto. Poiché in quel caso sovviene l'immaginazione, che disegna con mano ferma qualsiasi cosa, creando dal nulla città e quartieri, paesaggi e strade, persone e cose. Di una bellezza così accecante che sembrano finte, quasi inventate. Che poi, in effetti, sarebbe proprio così se non fosse che l'immaginazione, per completare il proprio lavoro, si accompagna con l'illusione del vero, trasformando in realtà ciò che reale, in fondo, non è.

Ci sono volte, invece, in cui una semplice discussione con uno sconosciuto su un treno può risvegliare la sensazione del viaggio. A me capita, in questi casi, di sentirmi un puntino bianco qualsiasi nello sterminato foglio del mondo. Ed è proprio quel voluto anonimato a rendermi importante. Perché posso andare dovunque, fare qualsiasi cosa, senza uno schema preciso, godendo della brezza dell'improvvisazione che soffia per spazzare via l'afa dei precisi ingranaggi della quotidianità. Mi sento onnipotente perché imprevedibile, soprattutto da me stesso. Una scheggia impazzita nell'asse legnoso del mondo. Pronto a saltare quando sentirò la musica giusta per farlo.

Non dico che non ci sia bisogno di viaggiare veramente. Dico solo che non bisogna arrendersi quando non c'è la possibilità di farlo. Perché l'idea del viaggio é dentro l'uomo, che appunto è un essere che pensa e ama. E non a caso, proprio per questo, ha dato un nome ai sogni e ha scoperto le stelle.

Dedicato a tutti quelli che viaggiano ogni giorno. E che usano l'indice della mano non per ammonire o dire di no, ma per fermare ogni volta quel mappamondo impazzito che hanno dentro. E che colora di verde e azzurro la loro anima.

lunedì 25 luglio 2011

Profumo.

L'olfatto è la macchina del tempo dell'uomo. O almeno, così è per me. Credo infatti che ogni ricordo sia imprigionato in una nuvola di profumo che, una volta assaporato, anche molto tempo dopo la prima volta che l'hai avvertito e incamerato, scatena quel ricordo nei cunicoli della tua mente e lo rende vivo, reale, istantaneo. E' vero che chi vive di ricordi non vive nel presente, ma è anche vero che sono proprio i ricordi a darci la spinta per affrontare la quotidianità, ogni qual volta, di solito per paura del domani, sostiamo titubanti sul bordo della giornata e facciamo il giro largo del cratere invece di buttarci nel vuoto, dove ci stanno aspettando tutti gli altri, i quali chiamano a gran voce il nostro nome. E noi facciamo di "no" col dito, visibilmente imbarazzati, come quando rifiutiamo un invito a ballare durante una festa o di metterci in posa per una foto. Ecco, è a quel punto che il passato, sotto forma di ricordi (anche perché non esistono altre forme di passato, se ci pensate bene), come un'enorme mano, ci spinge giù, in quel vuoto che poi tanto vuoto non è. E non smetteremo mai di ringraziare questo gesto che, a prima vista, ci è apparso vigliacco e subdolo.

E dunque, i ricordi che si manifestano attraverso l'olfatto. In effetti, altri sensi si presterebbero a questo fine, su tutti la vista. E perché no, anche il gusto. Eppure, per me, l'olfatto non ha rivali. Un profumo, un odore, condensano in una nube vaporosa momenti, gesti, sguardi, emozioni e sentimenti. E li risvegliano per mezzo, appunto, dell'olfatto, del naso; di una parte del corpo, cioè, di solito considerata solo per l'aspetto estetico e oggetto di rifacimenti artificiali fini a se stessi e utili solo a non ridere di sè allo specchio. Qui, però, si parla di profumi, quelli che, una volta inspirati, arrivano nei polmoni e da lì vanno a nutrire direttamente l'anima, che si gonfia a dismisura e causa nel corpo quel brivido inspiegabile che ognuno di noi avverte quando sente un profumo particolare. Non è colpa del freddo, né di un prurito al naso: è semplicemente l'anima che vuole uscire dal corpo per esprimere al mondo il suo stato. Uno stato d'animo, appunto.

Per questo sono legato a particolari profumi, che mi sottopongono, ogni volta che li avverto, a strani deja vu di emozioni. Ad esempio, quando sento l'odore di erba tagliata da poco, mi tornano in mente le partite a calcio giocate da bambino in un campetto a casa di un amico fraterno, d'estate, con due giare a mò di pali della porta e l'albero di pere a bordo campo, che alla prima pallonata produceva un raccolto degno di nota. L'albero c'è ancora e, quando io e questo amico, ora che siamo cresciuti, ci affacciamo dal balcone che dà su questo campetto in miniatura, l'albero ci guarda con terrore, come una volta. Senza sapere che, ormai, giochiamo quelle partite solo con la memoria, sbucciandoci ugualmente le ginocchia. Ed è forse per questo che, ogni tanto, ci scende una lacrima sulle guance.

Oppure penso al profumo della legna che arde nel camino, che mi ricorda le cene di Natale a casa di mia nonna, quando tutti, dopo aver mangiato, giocavamo a tombola in attesa della mezzanotte per aprire i regali. Un tavolo enorme e davanti un camino, che riscaldava l'ambiente e i cuori. Ogni tanto vorrei essere quel camino, per accendermi e rivedere impressa nelle fiamme quell'immagine felice che sicuramente avrà memorizzato meglio di me. Un'immagine fatta di gente in attesa di un numero estratto da un sacchetto azzurro di panno. Una persona sorridente per ogni numero. E la consapevolezza dell'irripetibilità di quegli istanti, poiché alcuni numeri non ci sono più.

O ancora, il profumo della vestaglia indossata d'inverno da mia madre, quando mi rimboccava le coperte. Questo non so proprio descriverlo, mi viene in mente solo la parola "candore". Eppure mi addormentavo subito, dopo quei gesti collaudati, accompagnati da quell'odore rassicurante. Io che, tutt'ora, anche d'estate, cerco sempre con le gambe e con i piedi qualcosa che mi copra per il sonno. O forse, sto cercando in realtà qualcuno che, ancora oggi, lo faccia per me.

E perché no, anche i profumi della gente. Io ricollego un profumo al suo "portatore", diciamo così. Avverto la sua presenza o, comunque, sentendo quel profumo in giro, mi ricordo subito di quella persona. E non faccio riferimento solo ai profumi artificiali, ma anche e soprattutto a quelli umani, che sprigionano dalla carne o dai capelli. E che si imprimono sui letti, sui divani, sulle cose di ogni giorno. Dando prova del nostro esistere, del nostro respirare, ogni attimo, ogni vita. Spruzzati nell'aria ogni volta che i polmoni si sgonfiano e buttano fuori l'anidride carbonica.

La lista è davvero lunga, ma credo che con questi esempi abbia reso l'idea. E adesso, andando a letto, anche tutti i sensi, come me, andranno a dormire. Tutti, tranne uno: l'olfatto. Perché il naso serve a respirare, anche di notte. E a cogliere gli odori che popoleranno i miei sogni. Per farmi rivivere quei momenti, non importa se ciò avviene mentre sto dormendo. D'altronde, un ricordo si lega al passato e perciò, per definizione, spezza il filo logico del tempo e delle giornate. E con esso, quello della realtà e del sogno, dell'essere e dell'immaginazione. Creando un istante in cui tutto nasce e tutto muore.

Come quando ricordi un profumo. Come quando profumi un ricordo.

giovedì 21 luglio 2011

Anatomia del dolore.

Il dolore non esiste. Esiste solo una diversa forma di felicità. Quella data dalla consapevolezza della realtà, dal dissiparsi dei dubbi, dalla genuina freschezza di poche parole e dalla maturità che non credevi di possedere e che si manifesta quando meno te l'aspetti. Forse chi ha inventato il dolore non sapeva che esso è una sensazione passeggera, destinata a morire in un tempo direttamente proporzionale alla quantità di disincanto che ognuno ha.

Il dolore è un vetro rotto. Fa un fracasso assurdo, forse porta pure sfortuna, ma poi bastano una scopa e una paletta per raccogliere i cocci e tutto finisce lì. Ogni tanto potrà capitarti di calpestare coi piedi nudi una scheggia di vetro sfuggita alla pulizia dell'anima che hai fatto qualche giorno prima, ma anche in quel caso saranno sufficienti un pò di cotone e di acqua ossigenata per chiudere la ferita. E con essa l'intero discorso.

Il dolore è un libro di cui non potrai mai leggere la fine. A meno che non ti renda conto che esistono miriadi di altri libri che aspettano solo te e che sono pronti ad essere letti fino all'ultima pagina. Eppure non dimenticherai mai quel libro. E continuerai a consigliarlo agli amici.

Il dolore è un fantasma. Nessuno gli crede, ma è opportuno stargli comunque lontano. Anche perché basta un lenzuolo bianco con due buchi per gli occhi a riportarlo in vita. E dunque, meglio usare le lenzuola solo per coprirsi la notte. E difendersi così dai mostri dell'immaginazione, tanto più temibili quanto inventati.

Il dolore è un vento cupo e impetuoso. Che però diventa pure divertente se in mano tieni una girandola colorata. Come con una torcia in una miniera inesplorata, con una girandola d'arcobaleno puoi sconfiggere qualsiasi tempesta.

Il dolore è credere che tutto sia perduto. Ma con una mappa si ritrova ogni cosa. Basta desiderarlo e allora la mappa si materializzerà nelle tue mani, con le ics che indicano i tesori nascosti e una nave pronta a salpare alla loro ricerca.

Il dolore, infine, è vedere un paio di ali intente a volare. E non potere fare nulla per farle volare più in alto. Eppure continuerai a volere bene a quelle ali, anche se non sono le tue, perché ce l'hai tatuate sul cuore. E, come tutti sanno, un tatuaggio non si può lavare via con un colpo di spugna. Al massimo lo si può bruciare col laser, lasciando comunque una cicatrice che, simbolo di dolore per eccellenza, per te significherà tutto l'opposto. Ossia l'aver dedicato per sempre un angolo del tuo campo della felicità ad una persona.

E in quell'angolo, stai pur certo, cresceranno i fiori più belli. Tulipani rossi che affonderanno le radici nel tuo cuore, nutrendosi e colorandosi così del tuo sangue. Che dunque uscirà fuori dal tuo corpo, ma non per una ferita e, quindi, non per dolore. D'altronde, si è detto, il dolore non esiste.

mercoledì 20 luglio 2011

Pioggia d'estate.

Adoro la pioggia d'estate. Perché arriva all'improvviso, con una forza e una potenza tali da rompere l'incanto del sole. E va via quasi subito, assorbita dalla terra secca e assetata e ricondotta su, sopra le nuvole, da quel potente mago con i raggi dorati che per un attimo si era lasciato sopraffare, ma che poi ha riportato tutto alla normalità con un semplice tocco di bacchetta, scusandosi per l'inconveniente.

Adoro la pioggia d'estate. Perché, appunto, è temporanea, veloce e per questo ti riporta alla realtà, seppur bruscamente, ricollocandoti sui binari del tempo dai quali hai volontariamente deragliato, cosicché ti possa rendere conto che giorno è, per non soffrire troppo quando l'estate sarà finita e risvegliarti da un sogno bellissimo con un misero pizzicotto. La pioggia estiva è la sveglia dell'orologio dell'estate che avevi dimenticato di aver puntato.

Adoro la pioggia d'estate. Perché profuma in un modo inconfondibile. Non è un profumo che si sente anche d'inverno. Anzi, lo si avverte solo nei mesi estivi. E' come se la pioggia, ogni volta, riesca a risvegliare antiche essenze nascoste nella terra e lì conficcate dall'afa quotidiana, che si sprigionano non appena l'ultima goccia di pioggia è caduta ed è stata assorbita. E' un odore indescrivibile, che chiunque ricollega subito a un acquazzone appena passato. La cui esistenza viene così accertata oltre ogni dubbio, senza doversi affidare alla vista di eventuali pozzanghere restie ad evaporare.

Adoro la pioggia d'estate. Perché puoi uscire comunque e lasciarti avvolgere da quell'acqua fresca senza avvertire la necessità di ripararti con l'ombrello. Perché l'aria calda, dopo, ti asciugherà subito e tutto sarà finito. Una sorta di rapida doccia tra una sudata e l'altra. Non puoi ammalarti se ti bagni con una pioggia estiva, tutt'al più puoi impazzire un attimo e ritrovarti a cantare "I'm singing in the rain" per la strada, utilizzando l'ombrello solo per la coreografia. E ti spieghi tante cose, a partire dal motivo per cui, quando eri piccolo, tua madre non si arrabbiava più di tanto se ti bagnavi per un acquazzone estivo e, invece di asciugarti subito e cambiarti la maglietta zuppa, ti piazzava al sole che intanto aveva fatto capolino e attendeva che quest'ultimo facesse il suo dovere.

Adoro la pioggia d'estate. Perché puoi fare comunque il bagno a mare. E provare una sensazione unica. Immergerti nell'acqua salata fino alla vita mentre l'acqua dolce ti si posa sulle spalle come un mantello. E stare lì, immobile, in piedi sulla sabbia mista a pietre che sta sotto e che poi diventa bagnasciuga. E sentire. Il rumore della pioggia che si tuffa nel mare con ogni sua goccia, il rumore delle nuvole che brontolano, gelose della loro acqua che stanno regalando al mare, e il rumore della tua anima bagnata, che forse piange o forse ride, ma che di certo ti farà reclinare la testa all'indietro per ricevere quell'acqua sul viso e aprire le braccia verso il cielo per ringraziarlo. E per consolarlo, perché non sa quello che si perde. Anzi, probabilmente lo sa.

E per questo, mischiando le lacrime con la pioggia, senza farsi notare, a un certo punto il cielo inizierà a piangere.

lunedì 18 luglio 2011

Buonanotte.

Buonanotte: una parola semplice, anche se composta. Detta sottovoce, mai con toni accesi. Perché chiude una giornata, perché il più delle volte sottintende tanti significati, perché funge da inchino rispettoso alla notte che avvolgerà il tuo sonno. Perché è un modo di celebrarla, la notte. E infatti, spesso, si dice semplicemente "notte", quasi per annunciarla, per confermarne la presenza agli scettici, per ricalcarne il nero con la voce. Che appunto è flebile, per non rischiare di uscire dai contorni del cielo e sbavare di inchiostro quella volta perfetta. Dove anche le stelle, con il loro stridente biancore, si sentono fuori posto e si fanno piccole piccole.

E' un suono d'amore, molto più vero delle frasi comuni degli innamorati da storia a lieto fine. Detta alla persona giusta, a quella che reputi giusta, al momento in cui scende dalla macchina, quando hai già capito di aver perso l'occasione per parlarle, che ormai è troppo tardi. Allora, in un impeto di coraggio, in virtù di un istinto ridicolo tipico di quegli attimi, le sussurri quella parola: "buonanotte". Per godere ancora per un istante della sua attenzione, perché lei si girerà e dirà a sua volta "buonanotte". E anche se la sua sarà una frase più di cortesia che di altro, comunque qualcosa accadrà. Due bocche che dicono la stessa cosa, due respiri che si fondono perché hanno la stessa forma. Come un bacio, né più né meno.

Ecco, dirsi "buonanotte" è come darsi un bacio. Tu, lei, un set improvvisato, un cono di luce che proviene dalla luna e che illumina solo voi, una sceneggiatura perfetta, nessuno intorno, silenzio e profumo d'estate e una ripresa di profilo che coglie l'intera scena. Non si sente nemmeno il rumore del ciak, per quella scena che in realtà è venuta benissimo già alla prima ripresa ma che tu ripeteresti all'infinito.

Ma quando ciò non è possibile, ti affacci alla finestra e sussurri "buonanotte" alla luna. Cosicché essa, che in quel momento è davanti a te ma in realtà è dappertutto, possa trasmettere quel messaggio alla persona che ami, quando è lontana. Per abbracciarla mentre va a dormire. Per coprirla col velo fresco della notte mentre si sta addormentando e tenerla per mano nei suoi sogni, dove torna bambina e vuole per forza camminare sul muretto e allora devi fare attenzione a che non cada. Perché altrimenti si sveglierebbe e tu non avresti il tempo di tornare a letto, addormentarti a tua volta e raggiungerla lì, nei suoi sogni, su quel muretto.

Dove è più bello dirsi "buonanotte".

"Buonanotte, questa notte è per te".

venerdì 15 luglio 2011

Siamo tutti uguali.

C'è chi è più alto e chi è più basso, chi veste più elegante e chi come capita, chi è biondo e chi è bruno (i castani come me vengono di solito associati all'una o all'altra categoria, a seconda dell'intensità del castano, mentre i rossi sono troppo rari e quindi non classificabili, come gli albini), chi sa cantare e chi è stonato come una campana, chi sa guardare solo con gli occhi e chi anche col cuore, chi sorride per davvero e chi per finta, chi dorme e non piglia pesci e chi è più fortunato e riesce a pescarli anche mentre dorme, chi alza lo sguardo verso il cielo per superbia e chi lo fa solo per guardare le stelle, chi piange per un nonnulla e chi per pura felicità, chi crede in Dio e chi pure ma lo chiama in altro modo, chi per addormentarsi abbraccia un cuscino e chi rimane sveglio in attesa del sonno, chi crede nel bene e nel male e chi gli va bene e chi gli va male, chi dice di saper amare e chi ama in silenzio senza sapere di amare veramente, chi preferisce stare solo per un pò e chi ha bisogno degli amici proprio perché si sente solo, chi dà del diverso ad un altro e poi ha abitudini tutte sue, chi adora la cioccolata e chi la odora e basta perché fa ingrassare, chi porta gli occhiali perché non ci vede e chi porta gli occhiali per il sole, chi d'inverno aspetta l'estate e chi d'estate rimpiange l'inverno, chi ama gli animali e chi gli animali li ha visti una volta allo zoo, chi sa nuotare e chi ammette di non saperlo fare, chi scatta una foto e chi dipinge, chi fa l'oratore in pubblico ma quando scrive sbaglia le doppie e chi è timido ma sa scrivere, chi è nato per comandare e chi per fòttere, chi sa ancora andare in bicicletta e chi ha dimenticato come si fa, chi parla con la bocca piena e chi si riempie la bocca ma poi in fondo non dice nulla, chi fa castelli di sabbia e chi li fa o di carte o in aria, chi è felice e chi è infelice (ma entrambi sono consapevoli che le parti si invertiranno, prima o poi), chi crede di essere qualcuno e chi non lo è e gli va di lusso così.

Insomma, ognuno è una storia diversa, ognuno è un colore diverso, ognuno è una vita diversa, ognuno è stato un inizio diverso e ognuno sarà una fine diversa. In definitiva, ognuno ha un ruolo diverso nel mondo. Ognuno è ognuno.

Ma basterà guardarsi negli occhi un istante per capire che, in fondo, siamo tutti uguali. Perché è vero che ognuno è ognuno. Ma non bisogna dimenticare che ognuno è vero. E perciò, lo siamo tutti.

mercoledì 13 luglio 2011

Il tempo e una foto.

In ritardo. Non negli appuntamenti di ogni giorno, per i quali, anzi, collezioni ore e ore di solitudini immeritate. Ma in quelli della vita. Quelli in cui devi vestirti elegante e presentarti col mazzo di fiori per la padrona di casa. Puntuale e col sorriso, non importa se falso. Tanto comunque riderai, dopo, alla fine della storia. E lo farai di gusto, felice di aver dato la risposta corretta, avendo sempre saputo, prima di tutti gli altri, che una domanda può cambiarti la vita. Ma che non per questo devi avere paura di rispondere.

Cosa aspettarsi, d'altronde, da chi ha sempre sbagliato momento? E' mai possibile pretendere il rispetto del tempo da chi sbaglia sull'istante? Ovviamente no. Perciò puoi fare solo spallucce, rassegnarti un pò e prendertela con te stesso. Così, tanto per farti un altro pò di male. Poi magari ci sarà pure chi ti rimprovererà perché ti stai mangiando le unghie. Senza sapere che, in realtà, ti stai mangiando le pellicine delle dita, perché le unghie sono finite ormai da tempo.

E poi c'è lei. Che stravolge il rapporto causa - effetto, essendo al tempo stesso causa, effetto e di nuovo causa. Bella come una foto in bianco e nero, coi bambini sulle scale in ordine sparso e i nonni e le nonne seduti su instabili sedie impagliate, che non vogliono cambiare per niente al mondo. I primi appoggiati comunque al bastone, anche se non ne hanno bisogno; le seconde che mostrano le gambe accavallate avvolte in spessi collant, approfittando del fatto che i mariti stanno guardando altrove, ossia verso l'obiettivo. Sono alti tutti uguale, vecchietti e nipotini, nonostante l'età. O forse proprio a causa dell'età, perché dicono che invecchiando si diventa sempre più bambini.

E tutti sorridono. O almeno così ti sembra. Allora avvicini la foto agli occhi, per vederci meglio. E mentre l'inconfondibile profumo della carta delle vecchie fotografie ti riempie i polmoni - un misto tra caffè e frutta secca - ti rendi conto che quei visi, così chiari da lontano, da vicino ti appaiono sfocati. Ma nonostante ciò, concludi per il sorriso. Perché quando ci si fa una foto si sorride sempre. E poi immagini che, dopo lo scatto che stai fissando ormai da minuti, tutti i bambini siano scappati via a giocare, suscitando i rimproveri dei nonni perché era pronto in tavola. E sorridi pure tu. Comprendendo che avevi ragione. Che non si può non sorridere in una foto.

Insomma, nella vita, anche se sbagli il momento, l'ora o il tempo, finirai comunque per sorridere, come quando guardi una vecchia fotografia. Per rassegnazione o per menefreghismo, perché tutto ti scivola addosso o perché sei tu quello che è scivolato, e ridi di te stesso assieme a tutti quelli che hanno assistito alla scena. Come quando da bambino cadevi faccia a terra e appena i tuoi genitori ti rialzavano, nell'incredulità generale dei presenti pronti ad un lungo pianto, inaspettatamente scoppiavi a ridere. E tutti ridevano con te e ti dicevano "bravo" battendo le mani.

Forse, però, non c'è una vera e propria ragione. E sorridi per un motivo oscuro anche a te stesso. Per lo stesso motivo, cioè, per cui il caffè ogni tanto lo prendi con lo zucchero e ogni tanto senza. E se mentre lo bevi ti cade sul libro che stai leggendo, non ti arrabbi ma aspetti che si asciughi, per poi avvicinare il naso al foglio. Per inspirare quel profumo che ti piace tanto. Perché ti ricorda quello di una vecchia fotografia in bianco e nero.

martedì 12 luglio 2011

Di notte.

E'una notte in cui rimani a letto con gli occhi spalancati. Perché solo così riesci a vedere veramente, oltre la realtà. Forse anche il futuro. Ti sembra di capire ogni cosa, tutto diventa così chiaro e limpido, logico e razionale, nella sua semplicità quasi imbarazzante, che davvero non capisci come hai fatto a non accorgertene prima. E' una sorta di consapevolezza assoluta, una luce che illumina la stanza buia. Notte nel mondo là fuori e giorno dentro di te.

Sarà che di notte si è sempre spontanei. Come quando si sta ore e ore a parlare in macchina di fronte al portone di casa sua e non la lasceresti scendere mai. La ascolteresti parlare all'infinito, senza comprendere veramente le sue parole perché troppo impegnato a sentire il suo respiro. A cogliere un rigurgito di anima che le sfugge. Per imprigionarne un pezzetto nella tua, legata ben stretta con un filo dorato, che se mai dovesse slacciarsi la farebbe volare via, in un'esplosione di petali del suo fiore preferito.

Basta una canzone giusta, ascoltata poco prima di tornare. E' la scintilla che fa incendiare gli alberi piantati nella tua mente per non farla franare. Quindi, tutto precipita. Una cascata di sentimenti che non sapevi di possedere. E che si manifestano all'improvviso, come quando ti innamori. Perché se c'è ancora qualcuno capace di emozionarsi per una canzone, allora il mondo può continuare a girare tranquillo. Preoccupandosi al massimo della fissità della luna, senza sapere, in realtà, che essa è per natura incapace di voltafaccia.

E' la sincerità della luna quella che ti coglie in una notte come questa. Mostri solo una parte di te stesso, quella più luminosa e bella, quella della vita. E tieni nascosta l'altra, quella oscura, quella delle paure e dei dubbi. Semplicemente perché, come accade sempre per la luna, anche tu, per un momento, hai solo una faccia. Peccato che la puoi vedere solo tu. Gli altri però coglieranno qualcosa nei tuoi occhi, il mattino dopo. E, involontariamente, in pieno giorno, alzeranno lo sguardo al cielo in cerca della luna.

Poi arriva il sonno. Piano piano la luce che avevi acceso senza interruttore si affievolisce. E tirerai il filo che pende dal cielo per spegnere la luna. Per farla riposare in vista del mattino, quando dovrà gareggiare col sole per un posto nel cielo. Per farsi vedere da chi avrà gli occhi giusti per farlo, perché non tutti coloro che di giorno stanno col naso all'insù sono capaci di ignorare il sole.

Chiudi gli occhi. E con te, lo fa anche la luna. A far luce, stanotte, ci penseranno le stelle.

sabato 9 luglio 2011

Guardando una barchetta di carta su una pozzanghera.

Guardando una barchetta di carta su una pozzanghera agitata da un filo di vento, quasi per magia ci si può ritrovare sulla tolda di un veliero che attraversa un oceano in tempesta, forte solamente della sua impalcatura di carta e inchiostro e della spinta di un dito che gli ha dato l'abbrivio, dopo che un'intera mano l'aveva prima creato dal nulla e poi depositato con leggerezza su quello specchio d'acqua.

E poi c'è un piccolo legnetto, che la mano usa per rimettere la barchetta sulla retta via, quando, senza volerlo veramente e forse più per istinto che altro, essa si dirige verso il bordo della pozzanghera per arenarsi lì e terminare subito quell'agonia. La carta, infatti, piano piano si inzuppa, diventa scura, un crepuscolo a quadretti, e si appesantisce, per poi rammollirsi perché penetrata dall'acqua. E alla fine, quando è troppo piena e non ce la fa più ad assorbire il liquido sul quale fino a poco prima navigava a testa alta, la barchetta affonda.

Ed è a quel punto che quella stessa mano che l'ha messa al mondo, che sembrava avesse deciso di lasciare la barchetta al proprio destino, quasi godendo della sua lenta traversata senza una fine, appare dall'alto, si immerge fino al polso e la tira su. Dopo di che asciuga con pazienza la barchetta, sfiorando con i polpastrelli quella carta sempre più dura e che dopo lo scampato pericolo riacquista il suo colorito bianco, in verità ora un pò giallastro, e posa la piccola imbarcazione, che adesso ha tutti i quadretti a posto e solo un pò sfocati, accanto a tutte le altre, lontano dall'acqua, di cui ormai si sente solo il rumore in lontananza.

Ecco, ognuno di noi, in fondo, è una barchetta di carta su una pozzanghera di nome vita. Ci sembra sempre di affondare e per timore dei mostri dell'oceano cerchiamo di approdare a riva. Crediamo che tutto sia perduto, che non abbia senso questo nostro viaggio verso l'ignoto, anche perché non è rimasta più alcuna terra da scoprire. Eppure è sufficiente un rametto per rimetterci sulla retta via. E quando affonderemo per davvero, basterà afferrare la mano di qualcuno per uscirne fuori.

E respirare un'aria che saprà ancora di mare. Ma che, finalmente, non ci farà più paura.

lunedì 4 luglio 2011

L'andata è il ritorno.

Di solito mi accade quando sono in macchina e non sto facendo nulla di particolarmente impegnativo. Che ne so, per esempio sto semplicemente tornando a casa. Oppure sono uscito per qualche faccenda che avrei potuto tranquillamente ignorare. Comunque sia, quel che è certo è che in queste serate - perché di solito tutto questo capita poco prima che faccia buio - l'unica cosa che desidero è rimanere in giro e vagare senza meta. Possibilmente con la musica giusta nello stereo dell'auto. E nel cuore.

Saranno forse i colori del cielo, ossia quel rossastro tendente all'arancione che offusca l'azzurro, preludio di un nero imminente, ma ancora troppo tenue per poter dominare la scena. Come un acquerello che piano piano scende dalla punta della cupola celeste e si diffonde sui lati con la velocità di una colata d'olio. O forse è l'aria che, satolla dei raggi solari del giorno, libera il calore che ha imprigionato e lo scaglia contro il fresco della notte, creando una miscela climatica perfetta. E dall'odore unico. Mettiamoci pure il profumo, allora. Per esempio, quello dell'estate alle porte. Inconfondibile, lo si avverte a primavera inoltrata. Tutti sappiamo cos'è, qual è il suo significato. Ma non sapremmo descriverne con esattezza la fragranza. E' un'essenza che Qualcuno, lassù, ogni tanto si lascia sfuggire, quando ancora è troppo presto. Perché non resiste alla sua bellezza ed alla sua purezza e, di nascosto, apre la boccetta che la contiene, per respirarla un attimo. E il profumo si diffonde subito, incontrollabile. Giusto il tempo di inebriarci, dopo di che quel Qualcuno richiude in fretta e furia la boccetta e promette a se stesso che non la aprirà più, se non a tempo debito. Ma sa già che non sarà così.

Saranno allora tutti questi fattori, ma sta di fatto che, in queste serate, io non ho mai voglia di tornare. A casa o ovunque mi stiano aspettando. Desidero solo sentire quello che c'è intorno a me. I rumori della città diventano una musica, seppur chiassosa, che lentamente, a sua volta, assume i connotati di una melodia che incanta, soprattutto se, senza accorgermene, mi sto dirigendo verso la periferia, magari verso il mare. Il paesaggio cambia, tutto si modella secondo le mie esigenze. Anche l'arcobaleno, che ha appena fatto capolino nel cielo sebbene non abbia piovuto, si capovolge e diventa un sorriso. Mi sembra di essere all'interno di una scatola magica, sospeso in un limbo in cui tutto si ferma. E gli unici a muoversi sono i pensieri. Che però vanno ad una velocità diversa dal solito, più armoniosa. E hanno il passo leggero, silenzioso, poiché rispettano quel momento assurdo. Che, a ben guardare, tanto assurdo non è.

L'assurdità, in fondo, non esiste: è solo frutto di una mente che ha deciso di spiegarsi le cose senza l'ausilio dell'immaginazione. Che a sua volta è figlia dell'ispirazione. Senza ispirazione, infatti, sapremmo dire con facilità in quale parte del corpo si trova l'anima: al centro, tra i polmoni, nella parte concava della gabbia toracica. E questo perché l'anima sarebbe vuota. E basterebbe bussare con le nocche per sentirne il rimbombo e individuarla. Senza dover ricorrere all'immaginazione per farlo. E invece io immagino. E uso le nocche solo per dare un colpo intorno a me. Per capire se sto sognando.

Solo così il ritorno diventa un'andata. Ed ecco perché, in questi giorni, non voglio tornare. La verità, però, è che non posso.

I colori, l'aria, l'odore. E la mente. E i sensi al loro servizio. Schiavi che, per una volta, amano il loro padrone.