venerdì 29 aprile 2011

Mens ansiosa in corpore sano.

“L'ansia è una faccenda che ti si gonfia nella testa. E' come l'aria per il pallone: di concreto c'è solo un sottilissimo strato di gomma elastica, tutto il resto è aria.”
(Ascanio Celestini, “Io cammino in fila indiana”)

Tendenzialmente, io non sono una persona ansiosa. O meglio, ogni tanto ho l’ansia di sembrare ansioso agli altri. Perciò, a conti fatti, sono ansioso pur credendo di non esserlo. Per vero, però, lo sono per difendermi da accuse di ansia da parte di altra gente che esibisce la propria ansia con falso vittimismo. Quindi, è un’ansia giustificata. O forse una finta ansia. Perché credo che chi riconosce la propria ansia in realtà non sia ansioso in senso tecnico ma solo di facciata. Ma allora sono come quelli da cui voglio difendermi, ossia ansioso per presenzialismo. No, no. Al solo pensiero mi viene l’ansia.
Ecco, l’ansia (per lo meno la mia) nasce così, ma muore in modo diverso, cioè all’improvviso. Io, in verità, mi sono sempre reputato un tipo ansioso. Ma devo ammettere che, col passare degli anni, lo sono stato sempre meno. Posso affermare con orgoglio che questo è probabilmente l’unico tratto negativo del mio carattere che ho debellato. È già qualcosa. Non ho mai avuto ansia per un esame, ad esempio. O meglio, riesco a indirizzare questo strano fenomeno psicologico dalla mente al corpo, somatizzandolo. Così la mente rimane attiva e funzionante, non si rimbecillisce, mentre il corpo comincia ad avere qualche scompiglio. Ad esempio, faccio molte pipì, mangio, mi alzo e cammino. E soprattutto, a fine esame o simili, crollo come un albero segato a mezzo fusto, proprio perché il mio corpo, che ha accumulato l’ansia per liberare la mente da qualsiasi onere che non fosse quello di essere lucida al momento giusto, non deve più trattenerla e quindi anche lui, che ha sopportato in silenzio quel peso, finalmente, se ne priva. E lo butta giù, attraverso i piedi, dopo aver raccolto, nel suo tragitto dal collo verso il basso, ogni frammento d’ansia che aveva diligentemente depositato qua e là per non incidere eccessivamente su una parte del corpo in particolare. Non lo butta dalla testa, perché il corpo la rispetta. Sempre. Anche quando non sembra esserci un motivo. La vera ragione, semplicemente, sta nel fatto che, senza la mente, il corpo sarebbe inutile. Il corpo, in realtà, ama la testa. In segreto la venera e la adora, anche quando lei, come ogni donna che si rispetti, lo fa andare fuori di giri o lo sballottola qua e là. Non può stare senza di lei. Senza di lei non esiste, non è corpo. È un amore viscerale, che si manifesta ogni giorno. Magari non ce ne accorgiamo. Ma ognuno di noi, quotidianamente, è teatro della più bella storia d’amore mai messa in scena.

Quando capisci di essere matto.

Capisci di essere un po’ matto quando ti accorgi che qualsiasi cosa tu possa fare, leggere, ascoltare, perfino mangiare, in realtà, per te, ha sempre un altro significato. Faccio un esempio. Per me leggere un libro non è mai un’azione fine a se stessa. Nel senso che non lo faccio solo perché voglio finire il libro, cioè per arrivare alla conclusione del best seller, all’assassino del giallo, alla lacrimuccia del romanzo rosa, al successo del buono o alla sconfitta del cattivo (o almeno così ci si augura a inizio lettura, salvi i casi di simpatia macabra per il killer di turno o odio becero verso la giovincella rapita, che forse forse se lo meritava), ma per trovare frasi, spunti o citazioni che possano cogliere e riflettere il mio stato d’animo transitorio. E quando li trovo, faccio l’orecchia al libro per ricordarmeli. Con buona pace dei cultori dei libri “intonsi”, che magari si lavano pure le mani prima di iniziare a leggere e mettono quelle mefitiche foderine trasparenti sulle copertine, che iniziano a soffocare e stingono in parte per disperazione e in parte per ripicca.
Stesso dicasi quando ascolto musica. In preda a raptus di onniscienza da musicologo, vado subito a cercare il testo della canzone per annotarmi quella benedetta frase che tanto fa al caso mio e che ho ascoltato di sfuggita, sovrappensiero, ma era così perfetta, così adatta a quello che stavo pensando o a quello che per ora mi sta accadendo che non posso ignorarla così, su due piedi.  La cosa si complica quando la canzone è in inglese o quando è rap o hip hop, che vanno così veloci che se provi a imitarli ti attorcigli la lingua peggio delle cuffiette dell’i-pod quando le esci dai meandri della borsa dell’università. Per non parlare di quando ascolto quella determinata canzone alla radio. Magari per la prima volta. È un dramma. Devo ricordare a mente almeno due o tre parole (perché la maggior parte dei casi sono in macchina e non posso certo mettermi a scrivere mentre guido, anche se a volte accosto di brutto e annoto sul cellulare quello che ho sentito), andare su internet a cercare il testo corrispondente e finalmente individuare la canzone. Che poi molte volte le parole che ricordo si rivelano clamorosamente sbagliate, un po’ come un telefono senza fili mal riuscito. O ben riuscito, secondo quella corrente di pensiero, di cui faccio parte anch’io, secondo la quale se alla fine del giro di sussurri all’orecchio l’ultimo della fila dice una frase completamente senza senso e naturalmente agli antipodi rispetto a quella di partenza, allora il gioco è riuscito alla perfezione. Perché se fai un gioco lo fai per divertirti. Se non ti diverti non è un gioco (perdonate il qualunquismo infantile da bambino in coda per salire sulle montagne russe). Immaginate che delusione se alla fine del giro del telefono senza fili il malcapitato all’ultimo posto ripete esattamente la frase di partenza. A quel punto è matematico che si cambia gioco. E qualcuno potrebbe pure prendersela con chi quel gioco l’ha scelto. Insomma, dicevo del telefono senza fili nella mia testa. È grave che mi dimentichi subito quello che in teoria non dovrei dimenticarmi. Figuriamoci poi se si tratta solamente di due parole di una canzone. Però, a mia parziale discolpa, posso appigliarmi all’altro dato che ti fa credere di essere un po’ matto, ossia il fatto di pensare sempre. Penso troppo, a volte più cose in uno stesso momento. Anche quando è meglio lasciar perdere. Anche quando è più opportuno rilassarsi. Per esempio prima di dormire, quando sonno non ne ho ma dovrei cercare di farmelo venire, comincio a pensare ad un sacco di cose. Ricorrente è il pensiero per cui quando dormo, in effetti, non posso controllarmi e non posso guardarmi intorno. Un po’ come essere morto, ma con tutte le funzioni vitali perfettamente attive. Finisce che mi impaurisco pure e allora conto le pecore. Peccato che quelle maledette pecore non si limitino a saltare il recinto e andarsene ma fanno le finte, tornano indietro, saltano a due a due, aggirano il recinto, dormono (loro sì!), brucano l’erba e si accoppiano. Insomma, mi fanno perdere il conto e soprattutto mi fanno innervosire. E allora mi alzo, bevo, faccio pipì, bevo ancora, faccio di nuovo pipì (senza capire che è un circolo vizioso, accelerato dal nervosismo che, insieme al freddo, è la cosa più diuretica che c’è, altro che l’acqua di alcune sorgenti blasonate). In conclusione, dormo sì e no un paio d’ore, perché implacabile suona la sveglia prestissimo e inizia, fresca e baldanzosa, la giornata più stancante delle settimana. Guarda caso preceduta da una notte insonne.


“Io rimugino tantissimo. Quando cammino. Quando lavoro. Quando mi diverto. Quando mi compiango. Quando faccio l’amore. Soprattutto quando non lo faccio.”
(Diego De Silva, “Mia suocera beve")

Sui libri.

Non sono un lettore accanito. O meglio, sono uno che va a periodi, ossia sono molto discontinuo. Capita che mi trascino dietro un libro per settimane e spesso neanche lo termino. Altre volte, invece, divoro tre, quattro libri uno dopo l’altro senza accorgermene quasi. Non so perché, forse dipende dal carattere. O forse dai momenti. O da entrambi. Quel che è certo, secondo me, è che per leggere un libro bisogna avere la mente libera (o almeno in parte). Bisogna essere in grado di poter ricevere tutto quello che un libro vuole trasmetterti, insegnarti, suggerirti. Fare di un libro un semplice strumento di evasione credo sia molto riduttivo. Per te e per lui.

Mi piacciono molto le librerie, però quelle con pochi scaffali alle pareti e coi libri sparsi in mezzo alla gente. E’ bello incrociare lo sguardo con copertine esotiche, titoli curiosi, scrittori e scrittrici di ogni sorta, grossi manuali, piccoli vademecum, famosi best-seller, monumentali raccolte, tutti sistemati qua e là, ancor meglio senza un ordine preciso. Mi piace soprattutto pensare ai miliardi di parole che in quel momento mi stanno circondando e che bramano di venire alla luce, frementi e vogliose. Intere pile di libri tremano, sono vulcani pronti ad eruttare lava d’inchiostro e carta. Penso anche al fatto che tutte queste parole sono sgorgate dalle menti di esseri umani per andare incontro al loro destino di diventare frasi, periodi, capitoli, proprio lì, in quel libro e in quel determinato momento. Credo che ci sia qualcosa di magico in tutto questo. Specialmente perché, se ci pensate bene, quando abbiamo imparato a scrivere, in fondo abbiamo imparato solo a dare una forma ai nostri pensieri, per fissarli da qualche parte e soprattutto per non dimenticare. Ma come formare un pensiero, trasformarlo in un pugno di parole e tirarlo fuori al momento giusto, beh, questo non ce l’ha insegnato nessuno. Ce l’abbiamo dentro. Come quando da piccoli davamo una voce ai nostri giocattoli preferiti, anche quando ancora non sapevamo parlare.

Spesso regalo dei libri. Magari non sono colorati e profumati come un mazzo di fiori o comodi come magliette. Ma non appassiscono e sono sempre della misura giusta. Io credo che si può capire una persona anche dai libri che legge. Ma non per il genere di libro, bensì per le sensazioni che ricava da quella lettura. Parlare di libri con qualcuno vuol dire scambiarsi sensazioni. Un libro non è bello o brutto. È un libro e basta. È come uno di quei disegni da colorare. Ci sono le forme, più o meno complicate, e un immagine ben definita. Il colore è il tocco di grazia, il degno completamento. E questo tocco finale non spetta all’artista, ma al lettore. Se lo facesse l’artista ovviamente colorerebbe il tutto con tinte forti e allegre. È normale, il libro l’ha scritto lui. Ecco perché la tavolozza è in mano al lettore. Ed ecco perché un libro di fumetti potrà essere colorato di grigio e un libro di filosofia di turchese. Il rapporto con il libro è un rapporto personalissimo. I colori sulla tavolozza, infatti, li scegliamo noi di volta in volta.

Prima di dormire cerco sempre di leggere qualcosa. Così nel sonno, durante la notte, sogno e non rimango solo. Per questo avere un libro accanto al letto mi rassicura. E mi fa compagnia. Per chi come me ha bisogno di poter sempre contare su qualcuno. O su qualcosa.

La caccia alle bilance.


L’ultima proposta dell’entourage del Pdl (non il partito, ma il "Pisistrato della Lombardia") è stata quella di riscrivere l’art. 1 della Costituzione, prevedendo espressamente la supremazia del Parlamento su tutti gli altri organi costituzionali, in primis il Presidente della Repubblica e la Magistratura.
Ora, mi sono interrogato a lungo su tutto ciò, cercando di capire quale possa essere il motivo che spinge certi politici a ridicolizzarsi dinanzi all’opinione pubblica con “sparate” del genere. E, a parte le considerazioni delle solite malelingue comuniste che la mettono sempre sulle leggi ad personam e sulle attività (non solo sessuali) del premier eletto dal popol(in)o, sono giunto alla conclusione che siamo di fronte ad una delle tappe fondamentali del nuovo programma politico del Governo: la caccia alle bilance.
Mi spiego meglio. Sono dell’idea che Berlusconi sia ormai ossessionato da quell’oggetto perfetto che è la bilancia, specie quella a due bracci (la c.d. stadera), simbolo, guarda caso, della Giustizia. Nella sua personalissima battaglia contro i fantasmi che indossano toghe anziché lenzuola, il buon Silvio ha deciso di vincere alla sua maniera, ossia eliminando alla radice il problema. Cancellando la bilancia e le sue implicazioni concettuali. Pertanto, anche il metaforico bilanciamento tra poteri era davvero scomodo, retaggio di una tradizione politico sociale ormai decrepita e troppo attenta ad un equilibrio istituzionale che ha davvero rotto. Meglio mettere il Parlamento uber alles e tanti saluti a tutte le altre parti del corpo della democrazia. Importanti come un’appendice, cioè utili solo ad infiammarsi e, nei casi più gravi, a degenerare in peritonite.
Ecco le tappe del programma anti-bilance di cui sopra.
1-Sostituzione immediata del simbolo della Giustizia. Al posto della stadera, eccessivamente politically correct e, come detto, invisa al Grande Capo, in mano alla donna bendata (confermatissima, forse solo un po’ più scosciata, ma rigorosamente con la benda perché il “vedo non vedo” attizza sempre), accanto allo spadone (simbolo di virilità) ci sarà un telecomando (simbolo di par condicio tra le tv) oppure, ma è una tesi minoritaria, un cellulare con tanto di rubrica (per sdrammatizzare il problema delle intercettazioni). C’è chi ha proposto, tra i più arditi, di far fare alla suddetta donna il segno delle corna con la mano libera, per rendere più divertente l’atmosfera resa davvero noiosa e pesante da quei giudici di sinistra, tutti casa, chiesa (anche se sono di sinistra) e diritto. Qualche idea innovativa pure sullo slogan “dura lex sed lex”: la Lega vorrebbe mantenere dell’intero brocardo solo l’aggettivo “dura”, che è notoriamente la parola fondante l’intera tradizione culturale del Carroccio; il che, inoltre, servirebbe anche ad incoraggiare gli imputati a  difendersi uscendo gli attributi durante i processi, come si suol dire. Si tratta, in generale, di emendamenti che strategicamente verranno proposti in occasione di un’altra riforma della Giustizia, che tutt’ora è in cantiere ed è oggetto di discussioni e studi tra i pregevoli e fantasiosi giuristi del Pdl: quella che prevede la sostituzione della Corte Costituzionale con il Tribunale di Forum (dal quale, ovviamente, verrà eliminata la parte in cui il pubblico vota con i pesetti da mettere nella bilancia: al suo posto, si voterà attraverso il telecomando dell’”aiuto del pubblico” di “Chi vuol esser milionario”). Il dibattito sulla nuova riforma è ancora acceso perché c’è chi vuole proporre come Presidente della nuova Consulta il giudice Santi Licheri, data la sua rinomata fama riconosciuta bipartisan, mentre, per altri, potrebbe costituire un ostacolo il fatto che il celebre togato sia già morto.
2-Eliminazione del segno zodiacale della Bilancia. Al suo posto, le proposte più gettonate sono Vergine 2 e il pre-Scorpione. In effetti, Vergine 2 ha fatto ingolosire subito il Premier, incuriosito dalla possibilità di bissare l’inviolabilità delle nate sotto il nuovo segno, una volta entrate nel suo Harem. Inoltre, il nome si inserisce perfettamente nel quadro di espansioni edilizie che sta interessando le grandi città, con la creazione di superquartieri residenziali e lussuosi. I cineasti del Pdl sono egualmente entusiasti, anche se al nome Vergine 2 vorrebbero aggiungere “La vendetta” in onore di Rambo 2. Sembra essere stato accantonato, quindi, il pre-Scorpione, ma per il semplice fatto che nessuno sa come nasce uno scorpione.
3-Eliminazione dell’oggetto bilancia da tutti i campi di applicazione. I fruttivendoli, ad esempio, dovranno pesare la frutta con le mani e regolarsi “a occhio”. Qualunque controversia sarà devoluta in unico grado al Tribunale delle Banane, che, tra le altre cose, ben si concilia col fatto che anche la nostra Repubblica viene dai politologi più attenti ricondotta ai suddetti frutti oblunghi. Scontato l’appoggio della Lega alla proposta, sebbene però interpretata dai giureconsulti di Bossi solo nel senso fallico della questione.
Naturalmente, anche il peso della gente non potrà più essere misurato con la bilancia. Si ricorrerà al metro, ovviamente in riferimento alla larghezza del giro vita. Pertanto, dato l’utilizzo del metro anche per l’altezza, ogni persona sarà schedata come un mobile Ikea. Si discute, in proposito, se occorrerà indicare anche la profondità dell’individuo e il colore. A chi vede nella raccolta di questi dati una palese violazione della privacy e del divieto di discriminazione, si contrappone chi, invece, vi trova dei lati positivi: la profondità aiuterà a studiare e a risolvere storici problemi come la fila alla posta e la calca sui mezzi pubblici; l’individuazione cromatica, invece, aiuterà ad abbinare l’impiegato all’ufficio di riferimento in base al colore delle pareti. E poi, come osservato sagaciamente dai membri del Pdl, in un colpo solo si risolve il problema del peso-forma: la gente non sarà più ossessionata dall’ago della bilancia e vivrà meglio, anche se un po’ più rotondetta. Del resto, un uomo senza pancia è come un cielo senza stelle. E la donna un po’ più in carne piace sempre agli uomini. Le parole “anoressia” e “obesità” saranno cancellate dal vocabolario e dai libri di medicina. Se la gente non ci pensa, sostengono al Governo, allora le malattie non vengono: è l’ipocondria il vero problema degli italiani! 

In realtà sono ben altri i problemi degli italiani. Ad esempio, per rimanere in tema, molti si interrogano ancora se è più pesante un chilo di paglia o un chilo di ferro. Dovremo iniziare a preoccuparci, infatti, quando ci imporranno una risposta, escludendo l’altra. Perché lo motiveranno. E noi, che non potremo dare peso alle loro parole perché non avremo più lo strumento adatto, crederemo loro.  Ancora una volta. Come tanti pesetti che, senza piatto della bilancia, non servono a nulla. Al massimo, sono buoni per pescare. Appunto, per andare a fondo.

I più grandi fraintesi della storia.


Berlusconi ha affermato di aver dato i soldi (tanti) a Ruby per non farla prostituire e non perché prostituta. In poche parole, è stato frainteso. Anche questa volta. E non è il primo della storia.
Hitler, ad esempio, radunava gli ebrei nei campi di concentramento per non farli morire di solitudine.
Jack lo Squartatore sventrava le prostitute perché era stato bocciato più volte all’esame di anatomia e il docente gli aveva imposto di studiare sul campo.
Al Capone faceva beneficenza ma il fisco non gli ha creduto.
Dracula era astemio ma non voleva essere da meno con gli amici.
Giuda baciò Gesù perché gli voleva bene. E Ponzio Pilato lo fece crocifiggere perché l’aveva scambiato per Barabba.
Le grandi purghe di Stalin erano in realtà un programma sanitario dell’Unione Sovietica per sconfiggere la tenia.
Dove passava Attila non cresceva più l’erba. Ma solo perché gli puzzavano i piedi.
Erode aveva ordinato la strage delle Innocenti (le macchine) perché inquinavano, ma hanno equivocato sulla preposizione articolata.
Ad Hannibal Lecter la carne gliela mandavano direttamente a casa.
Nerone bruciò Roma perché pensava che così avrebbe risparmiato sulle torce.
I talebani di Bin Laden hanno semplicemente sbagliato rotta con l’aereo e sono finiti a New York.
Torquemada, durante l’inquisizione, faceva soffrire gli interrogati perché aveva un alito pestilenziale.
Darth Vader ha fatto quello che ha fatto perché con quella specie di vaso in testa non vedeva una mazza.
Mark Chapman voleva chiedere un autografo a John Lennon ma ha sbagliato penna. Stesso dicasi per Lee Oswald con Kennedy, solo che lui voleva prendere il binocolo per vederlo meglio.
I mafiosi non esistono. Tutti i morti di mafia sono suicidi.
Gheddafi non sta sparando sui civili. Sta solo festeggiando l’arrivo degli americani con dei fuochi d’artificio.
E la lista potrebbe continuare ma mi sto facendo schifo da solo.
Insomma, tutto questo per dire che le persone possono anche provare a farci credere di essere state fraintese. Ma noi non ci facciamo prendere per il culo.

De Granita


Da assiduo e orgoglioso divoratore di granite, posso ben dire ad alta voce che Messina è il “non plus ultra” in materia e tutto il resto è solo volgare imitazione, a cominciare dalla scarsissima granita della vicina Catania per finire alla pseudo-granita romana, detta “grattachecca”, che altro non è che ghiaccio con succo di frutta. La vera granita infatti per gli appassionati, oltre ad essere un rito praticato in vari modi a seconda della persona, diventa quasi una sorta di “poesia” per i nostalgici e di “attraente donna” per i mangiatori veri e propri, che non resistono al suo fascino e si abbandonano tra le sue “dolci” braccia. La granita, si sa, ha vari gusti…dal classico limone alla fragola, fino ai gelsi, ma la “vera granita” è caffè con panna, altresì detta “mezza con panna”, proprio perché il bicchiere viene riempito generalmente per metà di granitoso caffè e per metà di morbida panna. Come tutte le altre prelibatezze dolciarie siciliane, ovviamente anche la granita-caffè, accompagnata da una o due brioche, può facilmente essere sostituita ad un pranzo ed allora c’è chi, per aggirare l’ostacolo dell’”ingrassare”, si fa mettere dal barista “un po’ più di caffè”, ed allora il bicchiere si presenterà per tre quarti marrone scuro e sopra una patina bianca…ma così la granita perde gran parte della sua bontà, e non è difficile vedere baristi che, inorriditi dalla precedente richiesta, fanno finta di non aver sentito e riempiono comunque il bicchiere per metà con la panna tra le ire dell’”altezzoso” cliente. A proposito del bicchiere, vi sono vari tipi, dal calice piuttosto alto al bicchiere vero e proprio: io prediligo quest’ultimo proprio perché “ben saldo per terra”, si mantiene in equilibrio e facilita l’operazione “immersione-brioche” senza troppi patemi d’animo. E poi c’è da analizzare anche la panna: si va da quella che si amalgama benissimo col caffè a quella che galleggia a piccoli pezzi nel bicchiere: io preferisco la prima. Come del resto preferisco la granita non troppo densa, che è anche più leggera: tutto ciò però, dal bicchiere alla panna fino alla densità della granita, è a discrezione del bar ed il mangiatore non può far altro che giudicare.
Ora passerei all’analisi dei vari tipi di “mangiatore di granita” perché mica la si mangia tutti allo stesso modo?!?…sennò il bello dov’è? Ecco quindi un elenco stilato da me dopo anni di attenta osservazione dei miei vicini “granitari” i quali, involontariamente, finiscono per rispecchiare il proprio carattere in questa piacevole operazione.

•IL PIGNOLO: tipico del pignolo è la precisione con la quale mangia la granita e la dedizione che mette nel compiere questo rito. Inizialmente mischia tra loro caffè e panna fino a farli diventare un’unica miscela mulatta dall’inizio alla fine del bicchiere (sacrilegio, se alla fine del bicchiere si intravede un briciolo di granita rimasta “da sola”). Dopo questa operazione, il pignolo passa alla fase due, ossia “mangiare”. Comincia ovviamente dalla “coppola” (o cappello) della brioche e, dopo averla divisa in due parti simmetriche, le immerge una per una nel bicchiere, ma non interamente: deve infatti restare una parte “pulita” sulla quale poggiare le dita e non sporcarle. La granita, per il pignolo, è infatti una questione solo tra bicchiere e bocca e nessun altro organo di senso deve essere coinvolto in questa sorta di viaggio verso il “nirvana della gola” (non a caso il pignolo è spesso identificato col nostalgico oppure con l’intenditore di granite). Poi continua col resto della brioche che verrà sventrata in due modi: o pezzetto per pezzetto oppure prima la parte superiore e poi quella inferiore, tutto con estrema calma, per godere di quel momento per il maggior tempo possibile: vedrete infatti spesso il pignolo che ogni due-tre bocconi chiude gli occhi e si passa la lingua sulle labbra, espressione massima del godimento.

•IL FRETTOLOSO: ovviamente contrapposto al pignolo, il frettoloso si differenzia da quest’ultimo proprio perché impiega il minor tempo possibile per mangiare la granita. Insomma non gode di quest’ultima, che viene divorata come un qualunque altro spuntino giornaliero. Il frettoloso, naturalmente in piedi al bancone e non comodamente seduto, spesso non guarda neanche la granita che sta per mangiare, limitandosi a muovere la mano dalla brioche al bicchiere e dal bicchiere alla bocca e soffermando lo sguardo magari su qualche bella ragazza seduta al tavolino di fronte. Proprio per questo il frettoloso, che paga sempre in anticipo, è spesso identificato con i giovani e con i lavoratori che approfittano di quel brevissimo momento di pausa per placare la fame.

•L’IGNORANTE: questa è la categoria più triste dei mangiatori di granita perché non sanno godere di questo momento in quanto semplicemente non ne sono capaci. Spesso infatti l’ignorante è identificabile con il turista che vuole provare le specialità del luogo oppure con un indigeno che però non è un assiduo frequentatore di bar ed ogni tanto vi entra per ricordarsi che è siciliano, ma il risultato è sempre uno scempio della granita in questione. L’ignorante è facilmente individuabile per questi motivi:1- spezzetta la brioche in vari pezzi, che poi immerge interamente nel bicchiere estraendoli col cucchiaino a mò di biscotti, riducendo così la granita ad una volgare tazza di latte; 2- mangia prima la panna e poi il caffè, come un normalissimo cono-gelato; 3- toglie la mollica alla brioche perché “ingrassa” (spesso infatti l’ignorante è identificabile con la ragazzina ossessionata dalla linea, che viene trascinata dagli amici al bar e, controvoglia, deve andarci…e consumare);4- sostiene che anche lui sa fare la granita come quella che sta mangiando(sacrilegio! il superbo non sa infatti che la granita del bar è inimitabile!); 5- per ultimo ma non per gravità, lascia la granita (orrore!), perché “troppa” e il suo stomaco “delicato” non può andare oltre. Per questi motivi e per altri che forse ora sto dimenticando, l’ignorante, a mio avviso, dovrebbe essere interdetto e gli si dovrebbe vietare ogni accesso ai bar o per lo meno alla granita. L’unica granita alla quale può avvicinarsi, secondo me, è quella dei “polaretti dolfin”, più volte pubblicizzata in tv come la “vera granita siciliana”: in questo caso io faccio finta di non aver sentito.

•IL MANGIONE: questi è semplicemente la massima espressione del piacere. Lo si individua perché ha sempre le dita e il viso sporchi di granita e sorride malignamente compiaciuto mentre divora la sua preda. Generalmente riempie il bancone di molliche della brioche e termina il “sacrificio” della granita leccandosi le dita. Tutto sommato il mangione non è da buttare perché, a modo suo, anche lui gode di questo momento…e poi è il simbolo della salute!

•IL TIPO DA BAR “MONOMANO”: quest’ultima categoria comprende tutte quelle precedenti, solo che vi si differenzia per alcuni particolari. Come dice il nome infatti, il tipo da bar mangia la granita con una sola mano (in questo caso è fondamentale il suddetto bicchiere “ben piantato a terra”) perché con l’altra o gesticola durante una discussione o sfoglia il giornale scroccandolo al bar. Inoltre si distrae spesso salutando tutti coloro che entrano e offrendo loro la colazione: è un po’ il padrone non ufficiale del bar. La granita diventa per lui una sorta di “scusa” per sedersi al tavolino dalle due alle tre ore e viene ridotta così alla stregua di un semplice caffè.

APPENDICE
Nella mia famiglia posso individuare le seguenti categorie: io mi ritengo un “pignolo”, come mia mamma. Mio fratello, che ogni volta deve pulirsi con “quattordici” fazzoletti le mani, è da considerare un “mangione”. Mio padre invece è il “frettoloso”, ma per motivi di lavoro, sia ben chiaro.